Bob Dylan lo si immagina tutt’oggi seduto a cantare le sue canzoni con la chitarra in mano, un’immagine che nel tempo non si è appassita.

E come potrebbe? Tempest è tecnicamente il suo trentacinquesimo album in studio, in più di uno, son convinto, sarebbero disposti a togliersi tanto di cappello davanti a lui in onore a tanta prolificità.
Ma state bene attenti, non immaginatevi chissà quale disco, Tempest è l’ennesimo album che ci possiamo aspettare da un tizio che si chiama Bob Dylan.
Sono disposto a credere che il caro Bob continui a scrivere musica con l’unica intenzione di rimanere vivo, se smettesse, non avrebbe probabilmente più motivo di restare dove sta, nel suo piccolo pezzo di mondo con la sua villa da non so quanti soldi – una casa così va effettivamente giustificata-. Questo è quanto, buon per lui quindi.
Dando per scontato che la copertina del disco è forse una delle cose più brutte che abbia mai visto tra tutte le copertine presenti nell’ampia raccolta di copertine della musica leggera, vi posso dire che Tempest è un disco folk, composto da dieci tracce, molte delle quali lunghissime, ad accompagnare testi altrettanto lunghi che probabilmente se ne fregano di annoiare qualcuno nel caso non fosse interessato.
La forma delle tracce è sempre quella, un unico giro di accordi con un piccolo cambio ad intervalli di battute regolari, molti strumenti, e tutto sommato bei suoni.
L’ultima traccia, Roll on John, è dedicata a John Lennon, quel capellone che suonava in quella band d’oltremanica discretamente conosciuta, un omaggio oltremodo apprezzabile.
Se non avete mai ascoltato Bob Dylan direi che è pressoché inutile cominciare ora con questo disco, che l’unico valore che ha è quello di essere posto alla fine di un’interminabile fila di dischi che bene o male, almeno qualche decennio fa, hanno fatto un po’ di storia della musica.
Ecco tutto.