Lo dicono tutti che non bisogna mai giudicare un libro dalla sua copertina. Però è pur vero che tutti gli indizi di questo California, settimo album dei Blink-182, non lasciavano presagire belle cose. Neighborhoods del 2011 era stato un disastro di disco, Tom DeLonge ha lasciato la band per studiare gli alieni, per poi essere rimpiazzato di fretta. Poi ci aggiungiamo il fatto che i Blink-182, a differenza di molti loro coetanei e colleghi (vedi i Weezer degli ultimi due album) sembrano cercare ancora di aggrapparsi ad un’idea di adolescenza che non esiste più né per loro stessi né per il 2016 e per gli adolescenti del 2016. A questo punto, perché continuare? California, poi, nasce vecchio già dal titolo e dalla copertina. Lunghi preamboli per dire questo: nonostante tutto, va ammesso che California è un disco migliore di quanto ci aspettassimo.

Il rimpiazzo ha sicuramente giovato a Mark Hoppus e Travis Barker, perché a sostituire DeLonge non c’è una sua brutta copia posticcia, ma il frontman di una band ancora *ehm* dignitosa della corrente punk rock e pop-punk: Matt Skiba degli Alkaline Trio. Skiba movimenta un po’ l’album proprio perché non si limita a rammendare i panni di quel poco che è rimasto di buono nella band, ma ne diventa membro vero e proprio e non lascia cadere le sue influenze, forti in brani come Los Angeles e Left Alone, in cui la voce si fa meno pop-punk e in alcuni momenti ricorda la potenza di Laura Jane Grace degli Against Me!, e che ben si fa accompagnare dalla batteria forsennata di Barker, da sempre uno dei punti fermi dei Blink-182. È una ventata di cambiamento per una band che avevamo dato tutti per spacciata, e che comunque non riesce ad uscire dalla mediocrità nella quale continua a richiudersi con i suoi coretti, wo-oh-oh e na-na-na che sarebbero capaci di infilare ovunque, ovunque; una band dai ritornelli faciloni e facilmente stucchevoli (She’s Out of Her Mind, Kings of the Weekend), di quelli che canticchi già dalla seconda strofa ma per cui ti odi per mesi interi non riuscendo a liberartene. La stucchevolezza, merito anche della penna di Patrick Stump dei Fall Out Boy (co-autore in Sober e San Diego) è in parte ridimensionata da Skiba, dal suo timbro e dai suoi riff più complessi (No Future, Left Alone) che a loro volta incoraggiano Barker a picchiare sulle pelli, come nel brano di apertura Cynical.

California rimane per molti motivi un album mediocre: iper-radiofonico, morboso, ripetitivo e aggrappato a(lle cose brutte de)l passato. Eppure l’entrata di Skiba nella band è riuscita a ritagliare uno spazio nuovo che saremmo curiosi di vedere in futuro in maniera più definita. California ricorda, in alcuni tratti, quello che è il pop-punk che noi ventenni e trentenni degli anni ’10 non ci vergogniamo di ascoltare – Modern Baseball, Tiny Moving Parts, Basement: band che sicuramente devono molto ai vecchi Blink-182 e che potrebbero insegnare qualcosa a quelli odierni (tipo come scrivere dei testi decenti a quarant’anni suonati, magari?). Al di là di ogni giudizio sulla qualità intrinseca di questo album e sul futuro dei Blink-182, California sembra il prodotto di un lavoro spensierato destinato ad un ascolto spensierato: ottimo per una scapocciata alla guida al ritorno dal mare.

Traccia consigliata: Bored to Death