L’estate in cui Mi fai impazzire si confonde con le glitterate creature di Maria De Filippi (sangiovanni) e con i feats improbabili ammoniti dal Codacons (Mille), BLANCO rischiava uno scivolone: si poteva diventare sazi di lui prima ancora che potesse esprimersi a pieno con Blu Celeste, si poteva sopportare la sua voce alla pari del proverbiale gattino aggrappato alle proverbiali gonadi, giunti all’ennesimo ascolto forzato di “Sono sotto la pioggiaa-a-a” (La canzone nostra) o del ritornello del suddetto singolo con Sfera Ebbasta (“Mi fai impazzi-ì-i-ì-i-re”). Da colonna sonora delle storie su Instagram al mare tutte uguali, a disco dell’anno; da meteora, ad artista affermato. BLANCO, con Blu Celeste, era chiamato a definirsi in uno di questi due limiti opposti, confini entro i quali oggi si assestano la maggior parte delle parabole discografiche di esordienti italiani, più o meno giovani.
Spoiler: chi scommetteva contro BLANCO, i detrattori di BLANCO e i potenziali futuri tali, hanno perso.

Blu Celeste è un album intimo, è solo di BLANCO e il suo importantissimo produttore Michelangelo. Non ci sono featuring, l’unica incursione tra il duo è quella di Greg Willen, produttore della FSK, in Figli di puttana: questa canzone è simbolo di una certa anima di Blu Celeste, dove a dare ritmo è un beat che mescola pop-punk e trap, ed è un mattone di quella parte dell’album più energica e gridata. Parliamo di quelle tracce, compresi i singoli Notti in bianco, Paraocchi e Ladro di fiori, in cui le percussioni forti e martellanti, accostate alla voce di BLANCO, travolgono l’ascoltatore: Sai cosa c’è (molto ‘80s), Finché non mi seppelliscono e Pornografia (Bianco Paradiso) si uniscono a questa schiera già nota. Tra il terremoto scatenato dall’energia di BLANCO, c’è spazio però anche per gli archi epici di Mezz’ora di sole che aprono l’album, e, soprattutto, c’è spazio per il BLANCO che finora non abbiamo mai ascoltato; quello che guarda il cielo pensando a una persona scomparsa accompagnato dal piano (Blu celeste), quello ossessionato dagli incubi (Lucciole), il BLANCO riflessivo di David, quello nostalgico di Afrodite. Insomma possiamo dirlo senza problemi, vista la sua vicinanza a Generic Animal o agli ISIDE: si mette in mostra anche il BLANCO più emo, oltre che quello sregolato.

La scrittura di BLANCO è secca e lineare, parole semplici, mai ricercate, per questo accessibili (e per questo totalmente pop). Sono però parole sporcate dalla sua voce, un timbro, come ad esempio quelli di Venerus e di Madame, che stravolge l’articolazione delle parole, a favore di flow, ma anche e soprattutto a favore di una unicità nel canto che non si misura più con l’intonazione e la potenza (Zarrillo e Celine Dion non v’arrabbiate), bensì si misura con la rottura di ciò che è consueto nel parlato, come la pronuncia delle parole, il loro ritmo (tutto quello che frantuma Rkomi, insomma).

Blu Celeste è un album di debutto come pochi se ne vedono in giro, ogni anno. È uno di quei dischi figli della follia più genuina che può esistere, quella tardo-adolescenziale di chi demolisce ogni cliché, di chi, durante lo shooting per la copertina del suo singolo più importante (Notti in bianco), viene immortalato che corre nudo nei campi, come bestia impazzita, come “animali randagi”. BLANCO che scappa: BLANCO che fugge dalle categorie, dalle collaborazioni forzate, dalla dizione corretta, dagli accenti al punto giusto. Blu Celeste è una fuga da quel pop che fino a qualche tempo fa consideravano innovativo – quello derivato dall’itpop e quello evoluto dalla trap . Una fuga verso un posto che per ora è solo di BLANCO e di pochi altri: il futuro del pop italiano.