I black midi, con il loro secondo album Cavalcade, si comportano come una pianta infestante: crescono, si ampliano, sviluppano trame intricate dentro cui ogni cosa sembra fuori controllo. La band inglese torna dopo due anni dall’esordio Schlagenheim, e lo fa raggiungendo un nuovo grado ancor più approfondito – e rampicante – di ricercatezza espressiva.

Cavalcade è un album monumentale, ma non solo, è qualcosa di più, o meglio: è qualcosa di diverso. Del monumento, i black midi vogliono essere l’edera che assale le forme consuete, che stravolge l’armonia dei profili e delle facciate. Il disco parte come un tornado: John L è una traccia perversa, nutrita dalla promiscuità di generi marchio di fabbrica del gruppo. Ma ciò che balza subito all’ascolto, è la maggior scioltezza con cui la band spazia tra i suoi sterminati e altrimenti-inconciliabili riferimenti.

La batteria forsennata di Morgan Simpson che lotta contro i violini stridenti che impazzano: così inizia l’album. Si immette tra questi contrasti la voce del frontman Geordie Greep, baritonale, che cerca di pattinare sopra l’imprevedibile ritmo del brano. Eccolo qui, Cavalcade: un disco pieno di frantumazioni e improvvisazione, di corde, fiati e percussioni provenienti da ambiti disparati; pause e capriole, avvitamenti, una montagna russa di free jazz e punk, di avant-rock, nu metal e di classica. Un’amalgama che vista nel suo insieme si allinea alla lezione degli Slint e alla rielaborazione di essi proposta dai Black Country, New Road, ma a differenza di lavori come Spiderland degli Slint e For The First Time (2021), il post-rock dei black midi suona meno ruvido e più colto, più elaborato, più math. Il suono promiscuo e il ritmo franto e sincopato di John L costituiscono la cifra principale di tutto l’album: l’edera si arrampica e si espande in Chondromalacia Patella, in Slow (qui la voce è del bassista Cameron Picton) e in Hogwash and Balderdash; si innerva nella struttura di Dethroned, traccia nella quale, a ogni cambio di ritmo, aumentano schitarrate shoegaze e riverberi che rimandano ai My Bloody Valentine.

Tra questa altalena di accordi e di strumenti, ci sono però anche parentesi di respiro, che mostrano un’altra declinazione dell’anima dei black midi: parliamo di Marlene Dietrich, Diamond Stuff (anch’essa cantata dal bassista) e la conclusiva Ascending Forth. Tre pezzi melodici, per i quali vengono riposti gli attrezzi più stridenti della band. Marlene Dietrich ci porta indietro nel tempo, a quando Frank Sinatra coccolava con la sua voce tutti i repubblicani d’America; mentre Diamond Stuff e Ascending Forth ci ricordano che il culto dei King Crimson non va rispettato solo per 21st Century Schizoid Man, ma anche per quegli altri tasselli, opposti, che hanno comunque reso immortale In The Court Of The King Crimson (1969), vale a dire quelle ballate diafane e incorporee come Epitaph e I Talk To The Wind: l’altra faccia del prog che nel 2021 si trova ad essere linfa vitale di un ottimo album.

Perché di questo si tratta: Cavalcade è un album ottimo, che supera le aspettative, alte, che già stavano attorno ai black midi dai tempi del loro debutto. Ma con questo secondo disco le loro ramificazioni in campi distanti tra loro si intricano ancora di più, e il risultato, anziché svanire in una confusione dispersiva, si inquadra in una cartolina, quella della rovina coperta di edera. A dimostrazione che spesso più bello del monumento, c’è la frantumazione di esso.

Tracce consigliate: John L, Chondromalacia Patella, Diamond Stuff