BALMORHEA
STRANGER – Western Vinyl

Dopo quattro album (più uno di remixes) incentrati su un tranquillo e ragionato post-rock da camera, è arrivata la prima virata per il gruppo di Austin, Texas.
Se i lavori precedenti erano infatti caratterizzati dal protagonismo di pianoforte e chitarra acustica, sempre magistralmente accompagnati da archi corposi e una batteria leggera, in Stranger i Balmorhea, pur non accantonando questa delicatezza, introducono in primo piano la chitarra elettrica e nuove percussioni che si vanno ad affiancare all’organico già consolidato.
Di rivoluzione vera e propria però non si può parlare poiché i Balmorhea non snaturano quella che è l’anima della loro musica, la quale ne esce arricchita di nuovi elementi che, salvo rari episodi, non spezzano né la trama del disco né il loro percorso artistico.
Interessante notare come Stranger sia stato prodotto “a distanza”, con il polistrumentista Michael Muller trasferitosi a Brooklyn e il pianista e chitarrista Rob Lowe ad Alpine, in California. Forse è proprio a causa di questo distacco che le due menti della band hanno potuto concedersi nuovi spazi e più libertà di sperimentazione.

Più che una continuazione dell’ultimo Constellations, album minimalista nell’espressione e nostalgicamente notturno, Stranger pare più una ripresa di All Is Wild, All Is Silent, in cui gli strumenti, accarezzati con vigore, fanno scaturire sentimenti chiari e sereni (ascoltare Truth per credere).

Già negli 8 minuti e 47 secondi della prima Days si respirano atmosfere diverse rispetto ai trend “cameristici” a cui i Balmorhea ci avevano abituato: arpeggi elettrici, delay e riverbero, synth e una sezione ritmica più accentuata che tornerà per quasi tutta la durata dell’album; non mancano però i legami con i lavori precedenti, palesati tramite archi e pianoforte, da sempre segni distintivi del gruppo.
Jubi e Shore rappresentano la transizione dall’acustico all’elettrificato; dove avremmo sicuramente trovato il legno nei vecchi dischi, o forse dei tasti bianchi e neri, incontriamo qui delle chitarre elettriche liquide e profonde, che si dividono e si stratificano, si intersecano egregiamente su diverse tonalità, dando uno squisito senso di pienezza e delineando atmosfere sognanti e rilassate.
Artifact è forse la nota dolente di queste nuove sonorità, portate qui all’estremo in un tripudio che rasenta a tratti il prog, genere che davvero non riesce a trovare un connubio con il contesto, pur irrorato di novità.
La sintesi della nuova sperimentazione è però la terza traccia, Fake Fealty, che, dopo aver regalato un crescendo di legni tra acustica, archi e percussioni, sorprende l’ascoltatore con una pungente chitarra che potrebbe tranquillamente essere quella di Stuart Braithwaite.
Il disco si chiude con Pilgrim, traccia più propriamente Balmorhea, che appare come una pausa di riflessione, quasi la band si trovasse spaesata dopo aver esplorato nuove terre, come un pellegrino, appunto.

Chi sia questo Stranger del titolo proprio non lo so, forse è la (ri)scoperta della chitarra elettrica, forse queste sensazioni serene che un po’ mancavano dopo un album come Constellations. Quel che è certo è che i Balmorhea riescono a non rendersi estranei all’ascoltatore, nonostante una deviazione nello stile a tratti marcata, non si perdono per questa nuova strada intrapresa, la cui meta si chiarirà solo nei lavori successivi.