Qual è il criterio per tracciare la linea che separa il genio dalla follia, la stupidità dall’intelligenza, la novità dalla retromania, la reinterpretazione dal plagio? E se è vero che, come autorevoli fonti ci tramandano, un bravo artista copia e un grande artista ruba, Ariel Pink, in tutto ciò, da quale parte della linea sta?
Ariel Pink dai capelli multicolore; Ariel Pink vestito da donna, con tanto di tacchi, borchie e paillettes che smonta la musica della versione moderna di Madonna (e come dargli torto), e che risponde a tono e in maniera non proprio elegante alla collega di etichetta Grimes, scatenando un po’ di marasma generale.
Tutte tattiche di mercato? Ovviamente.
Ariel Pink dissacrante, grottesco, provocatorio, weirdo, incantato, come da sempre lo conosciamo, ma allo stesso tempo furbo, intelligente, subdolo.
pom pom è stato annunciato così, un po’ dal nulla, come nella migliore delle contemporanee tradizioni che vogliono il new-marketing pieno di inattese sorprese, esuli da ogni logica di costruzione dell’hype (tanto ormai si costruisce anche da sé). pom pom è anche il primo disco che Ariel pubblica senza quegli Haunted Graffiti che comunque mai furono presenza preponderante nella pregressa discografia dell’artista, quanto più complemento e attuazione concreta del suo estro.

Plastic Raincoats In The Pig Parade ci catapulta direttamente nel distorto paese dei balocchi in cui Ariel è Mangiafuoco, Gatto, Volpe, Pinocchio, qualsiasi cosa. Incedere giocoso, voci fanciullesche e urla di giubilo, toy piano e xilofono ammiccante. Tutto rosa bubble-gum. Dinosaur Carebears è apice della destrutturazione: inizia con un riff arabeggiante, passa a un basso e una chitarra wave, interrotti dai suoni plasticosi del giochino della Vecchia Fattoria di zio Tobia, per poi attaccarsi a una chitarrina e dei fiati che reclamano lo schiocco di dita. Proseguendo per la via che erge il nonsense a unico dio troviamo sicuramente sul podio la rincorsa smorza-fiato di Negativ Ed (diretta successione sonora della sexpistolsiana Goth Bomb), tra sei corde, urla e campane. Jell-O cosa è? Boh, so solo che mi ricorda Flubber che balla. Passiamo dunque subito a Sexual Athletics: qualcuno ha detto Tengo Na Minchia Tanta? Black Ballerina è poi l’apice di temi scomodi raccontati con pestifera sfrontatezza: uno sfigato viene adescato per strada da un pappone per poi essere portato in uno strip club, dove, come capiamo dalle reazioni della ballerina, dà risposta alle sue pulsioni maniacali; tutto questo succede su bassi baldanzosi e un ritornello davvero impossibile da levare dalla testa (Giorgio Moroder docet).

Ed è questa la vera potenza di Ariel Pink: tutto ciò che fa, ogni dannata melodia, entra nel cervello come una trivella e lì pianta una bandierina che neanche Armstrong sulla Luna, ogni singola nota è imbevuta di colla per meglio appiccicarsi ai neuroni. Io ho anche provato a prendere a craniate il muro ma niente, non vanno via.

White Freckles è davvero siderale, la Beat It del 2014, forse anche troppo smaccatamente, ma chissene frega, con quei cambi di ritmo subitanei e travolgenti, la traccia giusta da ascoltare quando non si sa cosa ascoltare, e poi subito dopo Four Shadows, come se un aritmico Ozzy Osbourne avesse preso il microfono con la sua spessa presenza, degna di ossequia, e ancora un ritornello spezza ginocchia; e come non citare Lipstick, tra flauti e synth salterini degli anni ‘80 al neon e… indovinate un po’?! un ritornello adesivo!! Non c’è tregua nemmeno con Not Enough Violence, tra linee di chitarra e refrain urlati da rimanerci secchi.
Put Your Number In My Phone, One Summer Night (altro pezzo incredibile), Nude Beach A Go-Go ripescano atmosfere più eteree e leggere, smorzando i precedenti toni.
Picture Me Gone, agrodolce ballata contemporanea di denuncia del mondo 2.0 (I backed up all my pictures on my iCloud so you can’t see me when I die/I left my body somewhere down in Mexico/Give “Find My iPhone” app a try; cosa volete dire a uno così? Commedia in musica, genio) apre il trittico finale che, passando per i repentini cambi di ritmo di Exile On Frog Street, si conclude sulla classica ballata psych pop Dayzed Inn Daydreams.

In pom pom Ariel riparte dalle suggestioni 60s del precedente Mature Themes, ripescando le sbandate 80s di Before Today, imbevendo tutto di un certo sentore ora goth, ora psych, ora punk, ora boh, ma sempre e comunque pop.
Ciò che è certo è che risulta impossibile skippare una traccia che sia una.
pom pom rappresenta il compendio, la ciliegina sulla torta, la chiusura del trittico formato con i due album sopracitati, la summa artistica di quella che è una delle figure più strane, strampalate ma anche sornione (nel ripescare, e, ovviamente, reinterpretare in chiave stralunata e personale tantissime e più cose dal passato) dei nostri giorni; non stupisce ovviamente che da molti il personaggio di Ariel non sia amato, per usare un eufemismo, ma è il prezzo da pagare per un’ostentazione volutamente forzata di qualsiasi cosa.
Colpire, scioccare, sovvertire ciò che amiamo definire “normale”, il tutto facendo fischiettare con leggerezza e insinuandosi senza apparente clamore. Questo il suo obiettivo, ancora una volta raggiunto.
Capolavoro di un talento contemporaneo.

Tracce consigliate: White Freckles, Lipstick, Four Shadows, One Summer Night.