C’è un momento, una sorta di epifania nella carriera artistica di un musicista già affermato e criticamente incensato, che corrisponde alla completa realizzazione della propria cifra artistica: è il momento in cui riesce a conquistare tridimensionalmente lo spazio di un intero album, ad appropriarsi di ogni angolo e a lasciarci uno spaccato di sé senza maschere, impalcature o ellissi; è un’epifania per pochi anche perché in pochi possono permettersela – tra gli esempi più recenti penso a Sun Kil Moon, Sufjan Stevens e Titus Andronicus – che risulta in un cambiamento di solito radicale: in sintesi, ho la sicurezza di fare quello che voglio, e lo faccio bene.

Un’impresa rischiosa, dunque, ma quel che sorprende in Angel Olsen è la sicurezza con cui lo fa solo al terzo album, My Woman. Burn Your Fire for No Witness l’aveva già consacrata come la regina del nuovo folk, come un personaggio dall’intangibile sofferenza e dalla voce iconica, ma che già andava ben oltre il paradigma del folk al femminile; My Woman invece è umano, ancorato alla terra, sempre intimo ma in modo più sprezzante e diretto, più femminile. Manifesto alle intenzioni è quel verso della atmosferica Intern, brano di apertura e primo singolo del disco: “I just want to be alive, make something real”. Diventa così a tutti gli effetti tangibile quella realtà che si ripromette di creare, grazie anche ad una produzione che resta per la maggior parte minimale negli arrangiamenti ma squisita nel saper sposare voce e testi, scarni ma vividi.

A riprova del fatto che si tratti di un’appropriazione personale dello spazio musicale c’è la struttura dell’album: la prima parte ci mostra una Angel Olsen sicura di sé, diretta e aggressiva come non l’avevamo mai vista prima (Shut Up Kiss Me), alle prese con un rock ‘n’ roll (genere che credevamo ormai inaridito) dallo stampo anni ’70 (Never Be Mine) ma dalla disinvoltura anni ’90 (Give It Up, Not Gonna Kill You). Nella seconda parte di My Woman ritroviamo la Olsen che già ricordavamo struggente e intensa in piena realizzazione, a partire dal capolavoro lirico Heart Shaped Face:

“To lose the feeling of an endless searching through
How to have made what is never about me or you
That is the kind of love I’d always dreamed to be
However painful, let it break down all of me
‘Til I am nothing else but the feeling
Becoming true”

Centrale soprattutto nella seconda parte dell’album è l’accompagnamento del basso, ricco e limpido, di Emily Elhaj, che dona corposità alla voce di Olsen soprattutto in brani lunghi, complessi ed incantevoli come Woman e Sister. Pops, invece, chiude l’album con un breve ritorno al lo-fi, e un’immancabile ballata intima al piano (“Don’t forget it’s our song, I’ll be the thing that lives in the dream when it’s gone”.)

Emergendo dall’intreccio di chitarre di Woman, una Olsen al pieno della sua potenza artistica urla “I dare you to understand what makes me a woman”: è un altro verso-manifesto dell’album, il quale però non si prefigge di dare risposte universali o di tendere la mano per offrire o ricevere empatia, ma cerca solo di dipingere un quadro personale di un’esperienza, che è proprio quello che rende My Woman la realizzazione completa di Angel Olsen, il suo lavoro finora più vero, più necessario e più significativo. Se c’è una cosa che il 2016 ci sta insegnando, è che non servono virtuosismi e produzioni mastodontiche per realizzare un bell’album, ma servono una scrittura eccezionale e, soprattutto, la voglia di scrivere.

Tracce consigliate: Sister, Heart Shaped Face, Shut Up Kiss Me