È da qualche album a questa parte che Angel Olsen dimostra di giocare in un campionato a parte dal resto del cantautorato contemporaneo: una voce cantautoriale in costante movimento e un sound che riesce a catturarne il cambiamento, a mostrarne le influenze, ma al contempo restando inspiegabilmente sospeso fuori dal tempo.

L’esperienza d’ascolto di All Mirrors è quella di un coinvolgimento totale in cui si è parte del disco e fuori dal resto – in Impasse, come suggerisce uno dei brani; è una sensazione quasi fisica e totalizzante. Se My Woman introduceva i synth, All Mirrors segna la prima volta in cui Angel Olsen si affida ad un’orchestra ed accosta melodie dominate dagli archi ad un uso più sporco ed atmosferico dei sintetizzatori, di stampo vintage e che ricordano la colonna sonora di un vecchio film noir che non è mai esistito, ma che la musica di Olsen riuscirebbe a farci immaginare. I richiami cinematografici sono il frutto della collaborazione con Ben Babbit, compositore di colonne sonore (soprattutto di videogiochi) che dissemina nell’album muri di suono sintetici (All Mirrors, Too Easy) avvolgendo le tracce in un alone di mistero e di attesa; quella del colpo di scena di un giallo o quella disturbante di un film di Lynch.

La trama invece è dettata da Olsen: è la storia di chi si trova dall’altra parte. “Took a while, but I made it through”. Il momento più agrodolce della fine di una relazione, quando il rancore ed i rimpianti sono andati, e con loro i litigi ed i bei momenti. Restano il vago ricordo di ciò che è stato e la consapevolezza di non poter più cambiare nulla. Nel caso di Angel quel punto di rottura significa anche re-imparare ad amare sé stessa, e crederci davvero: “I like the air that I breathe / I like the thoughts that I think / I like the life that I lead / Without you”. È una rinnovata sicurezza che permea l’album e traspare sia nei momenti più monumentali (Lark) che in quelli più intimi e sussurrati (Tonight), una sicurezza già presente da Burn Your Fire for No Witness e da lì in continua evoluzione; e una sicurezza che le permette di pescare dalla tradizione canora francese ed italiana (con richiami a Mina in Lark e gli stessi accordi de Il Cielo in una Stanza di Chance), dal blues al jazz, dal country al synth-pop con i piedi sempre ben saldi nella penna di Olsen: perché questo disco non avrebbe potuto scriverlo nessun altro oggi, e nessun altro ne sarebbe capace. In questo la produzione di John Congleton, uno dei produttori più talentuosi degli ultimi tempi (e già dietro a Burn Your Fire) merita una menzione per aver curato nel dettaglio la ricchezza degli arrangiamenti riuscendo a non distogliere mai l’attenzione dalla voce e dalle parole di Olsen, vero pilastro di All Mirrors, la chiave del tutto.

La Angel Olsen di My Woman era quella che conquistava la sicurezza di poter fare della sua musica quel che voleva; All Mirrors riesce invece nell’impresa ambiziosa di fuggire ad una facile definizione di genere musicale pur conservando una qualità rara: quella di essere immediatamente identificabile come un’opera di Angel Olsen.

Tracce consigliate: Chance, Lark, Impasse