Andy Stott è un produttore che non puoi confondere con nessun altro. Ha diversi volti, ma che si tratti del suo lato più contemplativo o di quello più danzereccio, ha sempre tirato fuori dei grandi album, creando uno stile inconfondibile. E, soprattutto, è riuscito a non rimanere intrappolato nel vicolo cieco del genere o nella monotonia.

I suoi album sono diversi l’uno dall’altro, ma mantengono uniformità e coerenza come se facessero parte di un’unica realtà e danno l’impressione che con la sua musica sia in grado di spostarsi di qua e di là senza particolari sforzi e senza stufare. Questo è il suo territorio e nessuno meglio di lui ci si saprebbe muovere. Eppure, dopo un decennio esistono ancora tantissimi angoli inesplorati ed è in questo contesto e nella ricerca delle zone nascoste di questa sua realtà che arriva Never The Right Time, il nuovo album di Andy Stott.

In Never the Right Time si sentono immediatamente dinamiche nuove che si intrecciano con un superficiale ritorno al passato, ma questa nostalgia è più apparente che reale. Le atmosfere che avvolgono il disco sono sicuramente più vicine a Faith in Strangers e Luxury Problems (vedi, l’assonanza tra Faith In Strangers e The Beginning – che sembrano una l’evoluzione dell’altra), tuttavia, i tratti di novità superano quelli consuetudinari.

Un ruolo decisivo in questa sintonia tra quei dischi là e questo, lo svolge la voce familiare di Alison Skidmore che con Andy Stott lavora ad intermittenza dai tempi di Luxury Problems e che si era presa una mezza pausa, anche perché con quella roba dell’oltretomba, frammentata e a bassissimi bpm che abbiamo sentito in It Should Be Us non c’entrava nulla. E invece in questo nuovo lavoro c’entra un casino: il suo è il tocco umano in mezzo ai sequencer. La sua presenza, in cinque tracce delle nove totali, fluttua nel grigiume tipico di Stott e si abbina perfettamente ai toni ed alle scelte più mentali del disco. Il livello di produzione è infatti perfetto per far risaltare la profondità emotiva della parte vocale e della chimica che c’è tra i due.

E ancora più che nel passato, la profondità della voce di Alison si muove in ogni direzione con echi e riverberi, riuscendo a raggiungere tutte le dimensioni, anche quelle più oniriche e surreali del disco, come Away Not Gone o Hard To Tell che arriva quasi a toccare i Cocteau Twins di Treasure. Questa dimensione sogno-realtà dai contorni sfumati raggiunge l’apice, poi, in passaggi del disco come Dove Stone che sembra uscito dalla testa di Angelo Badalamenti nella OST di Twin Peaks, mentre risuona Laura Palmer’s Theme, anche se il contesto è ancora più marcio.

In mezzo alla roba sofisticata ci sono anche un paio di missili in stile stottiano, tra incubi e bassi giganti (ma non così giganti) che quando arrivano fanno casino, ma neanche troppo: quelli come Answers col cassone hardcore distortissimo e destrutturato come in Arca o quelli come Repetitive Strain, inizialmente senza ritmo, ma poi gli hi-hat iniziano a saltare ovunque e parte il treno. Tuttavia, la parte più spinta del disco è forse quella più debole, specie se paragonata alle mine di un tempo tipo New Romantic, Violence o Hatch The Plan.

Con il suo nuovo album Andy Stott mostra un altro dei suoi mille volti, meno carico di potenza, ma molto più ricco di emotività e profondità. Never The Right Time è un disco che non aggiunge granché alla sua discografia, piuttosto, alla sua audacia e alla sua voglia di spingersi oltre i confini del mondo che si è creato. Un mondo ambiguo in cui le ballerine non ballano e chi si tuffa è fermo: dalla finestra di casa sembra immobile, ma osservandolo da vicino è un’onda pronta a travolgere tutto.

Tracce consigliate: Don’t Know How, Dove Stone