Scanzonati, dissonanti e ruvidi ma quando serve profondi e delicati. Ecco gli Andrew Jackson Jihad, giovani veterani (non è un ossimoro) del folk punk che più folk e più punk di così non si può, rappresentanti di quella scena che nella sua accezione più pura nasce e prolifera grazie a feste casalinghe dove i gruppi folk, hardcore, punk, che siano gli ultimi arrivati o meno, suonano senza palco a diretto contatto col pubblico. Dicevo, definirli giovani e veterani non è un controsenso: la band di Austin in soli due lustri ha pubblicato cinque album, altrettanti EP e nella migliore tradizione dell’underground un gran numero di split.
E nonostante il successo che anche nel nostro Paese ha colpito e colpisce, diversissimi fra loro, Dropkick Murphys e Gogol Bordello, per i simpatici texani sembra non esserci posto tanto da essere relegati al grado di illustri sconosciuti. Poco male, anche se il loro essere profeti in patria condanna i fan europei a ridottissime possibilità di vedere dal vivo questo gruppo di freak.
Sean Bonnette e Ben Gallaty, il duo dinamico da sempre cuore e anima degli AJJ, si sono sempre circondati dal vivo e in studio di strumenti di accompagnamento, dalla fisarmonica alla sega cantante, dal glockenspiel al mandolino, aprendo e chiudendo cerchi all’interno dei quali la musica viene ideata, creata senza porvi paletti e accompagnata da testi tanto spesso agrodolci in un processo produttivo che all’ascolto trasuda divertimento consapevole e goliardica serietà. Quante band conoscete che siano capaci di scrivere una canzone nella quale parlare del disturbo bipolare mantenendo due livelli di lettura distinti fra di loro, uno che senza pesare sull’ascoltatore rimanga godibile e fischiettabile e l’altro che dia la possibilità di riflettere?

Temple Grandin e Children of God suonano quasi esattamente come suonava l’album con il coniglio Stormy in copertina, ad oggi ancora il loro più amato. Squadra che vince non si cambia, si potrebbe pensare a questo punto. E invece… Già a leggere la tracklist dovrebbero venire dei dubbi: dodici canzoni per poco meno di trentacinque minuti di musica vuol dire una lunghezza media molto più alta che in passato: abbondano i classici pezzi da tre minuti. Meno punk e più folk, un’acusticità che viaggia sull’orlo dell’elettrico e si copre per scherzo di riverberi forzati spingono gli AJJ molto più vicino di quanto si potesse pensare ai Neutral Milk Hotel; in Kokopelli Face Tattoo il santino Jeff Mangum appare con più intensità della Madonna a Medjugorje. Un’evoluzione inaspettata forse da imputare anche al produttore John Congleton: potete non avere idea di chi sia, ma sappiate che molto probabilmente ha lavorato con la vostra band preferita.
Di pari passo va il rallentamento dei tempi, lasciando meno da pogare e più da battere il piedino per terra su Coffin Dance.
Do, Re and Me, un minuto e mezzo di pop folkeggiante accompagnato dal violoncello potrebbe quasi essere una canzone di un gruppetto indie folk senza arte né parte se non fosse per il particolare che in una manciata di strofe si sparano in faccia all’ascoltatore una serie di sequenze da film splatter (in realtà molto peggio: l’ispirazione viene dal suicidio di massa della setta ufologica millenarista Heaven’s Gate), Deathlessness è il solito sfoggio di rigorosa demenza e melodie inarrestabili nella loro anarchia. Angel of Death, che speravo fosse una cover degli Slayer ma purtroppo no, ci saluta così

 And I am a video store clerk and an angel of death,
“Hello how are you? My Name is Trevor.”
Prepare to die,
Bad Lieutenant 2 is the greatest movie ever.

Tracce consigliate: Coffin Dance, Angel of Death.