Dato che il 2020 si sta rivelando un anno rumoroso, quale migliore occasione per abbassare i toni? Da gennaio a giugno sono stati pubblicati un sacco di album indie folk degni di nota, che, per un motivo o per un altro, trovano solo ora spazio nelle nostre pagine.

Si tratta di dischi intimisti, talvolta sperimentali, e parliamo sia di debutti interessanti sia di grandi ritorni; in ogni caso, ognuno di questi 9 album merita più di un ascolto e chissà che in questa lista non troviate il vostro nuovo artista preferito.

Nove album, dicevamo: da un Stephen Malkmus in versione acustica al prolifico Damien Jurado, dai ritorni di Owen Pallett e Laura Marling e Christian Lee Hutson ai debutti di Eve Owen e Tenci, fino allo splendido concept di Andy Shauf e alla svolta quasi psych dei Woods.

Qui dentro c’è davvero di tutto, buon ascolto.

Stephen Malkmus – Traditional Techniques

Che accade quando il frontman di una band di culto ormai sciolta da anni, e dopo tanti lavori che comunque vivevano sotto quella stessa capanna, decide di fare il fagotto, metterselo in spalla, e andare verso altri lidi? Accade che Stephen Malkmus pubblica Traditional Tecnhiques, un album che prende una direzione diversa dalle zone in cui l’ex leader dei Pavement si credeva radicato. Si tratta di un disco folk, acustico, architettato con una serie di collaboratori e strumenti che gli hanno dato un’impronta psichedelica, molto distante da quella indie rock canonicamente accostabile a Malkmus. A suon di sitar e fiati, Original Techniques è un percorso lungo tre quarti d’ora; un percorso si potrebbe dire esoterico, se non fosse contestualizzato al suo autore. Stephen Malkmus, infatti, con quest’ultimo disco prosegue il suo cammino verso altre soluzioni tecniche e artistiche, più che spirituali. Un atteggiamento che aveva dimostrato, di recente, con l’altro album solista Groove Denied e quello in collaborazione con i The Jicks, Sparkle Hard. Ed è un atteggiamento che ha dato i suoi frutti, perché Traditional Techniques è un album alimentato da esplorazione e curiosità artistica; ed è un piacere ascoltare il disco di un artista navigato, il cui talento si nutre ancora di questi presupposti.

Voto: 7.0/10Luca Montesi

Laura Marling – Song For Our Daughter

A soli 30 anni Laura Marling sembra avere già vissuto diverse vite e portarsele tutte dietro. Il settimo album solista, Song For Our Daughter, è un dialogo con una figlia immaginaria in cui Marling fa quella cosa tipicamente britannica di raccontare un dolore a cuore aperto per un momento per poi stemperarlo con una riga sardonica nell’altro, caratteristica che rende le narrazioni dell’album quel minimo inaspettate da mantenere viva l’attenzione nei confronti delle storie raccontate. Laura Marling, che ha sempre tenuto in primo piano l’aspetto cantautoriale della sua musica, ha spesso cambiato sembianze, e Song For Our Daughter porta con sé il peso di quelle eredità passate, ma paradossalmente suona come un album senza tempo, un classico spesso paragonato alle opere di Joni Mitchell, in cui la splendida produzione lascia spazio assoluto alla voce di Marling, spesso accompagnata da nient’altro che la sua chitarra acustica. Song For Our Daughter non inventa niente di nuovo, ma quando hai una voce che renderebbe belle pure le Pagine Gialle hai già fatto metà del lavoro; se poi sai scrivere belle storie, allora il tuo è un disco che merita di essere amato.

Voto: 7.4/10Claudia Viggiano

Woods – Strange To Explain

I 3 anni intercorsi tra la pubblicazione di Love Is Love e Strange To Explain rappresentano non solo il gap più lungo all’interno della discografia dei Woods, ma anche un periodo di profondo cambiamento nella vita privata di Jeremy Earl e Jarvis Taveniere. Il mutamento ha avuto un impatto positivo sul processo che ha portato alla creazione di Strange To Explain, un album folk che flirta con il rock psichedelico, il jazz africano e l’approccio da jam band che ha caratterizzato i dischi più recenti, mantenendosi però fedele all’identità degli esordi. Dopo il mezzo passo falso di Love Is Love, l’undicesimo LP segna il ritorno dei Woods allo stato di forma mostrato a fine anni 2000, l’apice artistico raggiunto dalla band di Brooklyn in 15 anni di attività; è un disco che verrà sicuramente apprezzato dai fan più affezionati, ma rappresenta anche un possibile punto di partenza per chi si approccia per la prima volta alla loro discografia ed è sempre stato intimorito dalla sua vastità

Voto: 7.2/10 – Cristoforo Colombo

Damien Jurado – What’s New, Tomboy?

What’s New, Tomboy? è il quindicesimo album di Damien Jurado, e se confrontato alle sue pubblicazioni più recenti, come In The Shape Of A Storm (2019) e The Horizon Just Laughed (2018), emerge un dettaglio fondamentale: Jurado stavolta non ha lasciato la chitarra da sola. Il nuovo album infatti si apre in una polifonia che negli ultimi lavori era rimasta sopita. Jurado si è avvalso della collaborazione del polistrumentista Josh Gordon, che compare anche in In The Shape Of A Storm, ma è in What’s New, Tomboy? che dal sodalizio è uscita fuori la varietà di strumenti che poteva essere potenzialmente sviluppata. Un’ispirazione che ha fatto dell’album un dieci tracce di natura essenzialmente pop, ma con arrangiamenti folk. Il folk di Damien Jurado, certo; quello tra le cui trame si intreccia una voce calma e sussurrante, che narra un flusso di testi rapidi e impressionisti. Sono però dieci quadri destrutturati, che non riescono a legarsi in un insieme nitido, quasi come se in fondo non hanno alcunché di speciale da raccontare. Un album calmo in ogni suo aspetto, che si ascolta per il semplice gusto di ascoltare qualcosa.

Voto: 6.0/10Luca Montesi

Christian Lee Hutson – Beginners

Prodotto da Phoebe Bridgers e con la partecipazione di Lucy Dacus, Conor Oberst e Nathaniel Walcott dei Bright Eyes per archi e arrangiamenti, Beginners è l’album d’esordio di Christian Lee Hutson, noto ai più per aver collaborato alla scrittura di alcuni pezzi per i progetti Better Oblivion Community Center e boygenius. Uscito per la ANTI- Records, che tra i suoi annovera musicisti dall’anima affine come Andy Shauf, Wilco e Cass McCombsBeginners è un album indie-folk tradizionale e delicato sulle difficoltà, le ansie e le paure di diventare adulti. Tre gli ingredienti fondamentali: gentili chitarre acustiche, voce morbida e sussurrata à la Sufjan Stevens e soprattutto una spiccata sensibilità e una capacità di scrittura non comune. Ne sono esempi perfetti i singoli Northsiders, minuzioso, nostalgico e divertente sguardo all’indietro sull’adolescenza dal finale dolce-amaro (“We were so pretentious then / Didn’t trust the government / Said that we were communists / And thought that we invented it”) e Lose This Number, spezza-cuore, malinconico e sconclusionato rimuginare sul passato con un misto di rimpianto e ingenuità (“Where the whole time I’ve just been asleep here / Twenty years younger / Smell of sugar and seaweed / Indian summer”). Di nome sarà anche un punto di partenza, ma di fatto Beginners è un album che di acerbo ha poco, in cui al contrario Christian Lee Hutson mostra di essere padrone dei propri mezzi, a livello musicale e di storytelling. Un album che merita più di una chance e un artista da tenere d’occhio.

Voto: 7.5/10Ilaria Procopio

Eve Owen – Don’t Let The Ink Dry

Se il nome di Eve Owen non vi risulta familiare, non preoccupatevi. Don’t Let The Ink Dry è infatti l’album d’esordio di questa 21enne londinese – figlia d’arte dell’attore Clive Owen – già sotto l’ala protettrice di Aaron Dessner dei National, qui in sede di produzione. Di sicuro l’avete già sentita cantare, dato che Eve affianca proprio i National su due dei brani più belli dell’ultimo I Am Easy To Find, Quiet Light e Where Is Her Head. La curiosità per questo debutto arriva soprattutto da lì, e diciamo che le nostre aspettative non sono state deluse, tra brani più ariosi (Mother, Bluebird, I Used To Dream In Color) e altri più sommessi, dove la mano di Dessner si sente parecchio (Tudor, She Says o la bellissima After The Love). Che si tratti di svolazzare su un pianoforte malinconico o tra arpeggi di chitarra, la voce di Eve Owen riesce sempre a valorizzare un songwriting il più delle volte davvero ispirato. Don’t Let The Ink Dry è un debutto composto, precisino, senza apparenti difetti: qui dentro ci sono delle canzoni che suonano davvero classiche, talmente classiche che vi potrebbe capitare di passarci accanto senza accorgervene.

Voto: 7.1/10 Sebastiano Orgnacco

Tenci – My Heart Is An Open Field

C’è un piccolo monolocale in una grande città. Pareti sottili e condizionatori fuori dalla finestra. Dalla porta accanto si sente a malapena una chitarra. Un bedroom folk minimale con deviazioni country senza storpiature. A tratti suona parecchio eccentrico, ma mostra un talento pronto a farsi notare. Una voce che rimanda ad Adrianne Lenker cattura l’attenzione, mentre parole molto tristi raccontano esperienze altrettanto tristi. Questo è il debut album di Jesse Shoman (aka Tenci), My Heart Is An Open Field: una seduta dall’analista attraverso la quale questa giovane ragazza si racconta con un songwriting molto intimo, espresso con variazioni vocali rudimentali che ti proiettano nel labirinto che ha costruito per proteggersi. Ma anche se il suo modo di suonare è abbastanza deprimente dopo ne esci più sereno. Ci sono tanti album tristi che sanno migliorarti la giornata. Questo è uno di quelli.

Voto: 7.5/10Giuseppe Mangiameli

Andy Shauf – The Neon Skyline

Partiamo col dire che The Neon Skyline, sesto album in studio del cantautore canadese Andy Shauf, è semplicemente completo; si potrebbero utilizzare milioni di aggettivi per definirlo ma quello più totalizzante è proprio questo. La maturità assunta nel percorso musicale intrapreso dall’autore si riflette benissimo in questa narrazione di una sera al bar, dopo aver scoperto del ritorno in città della sua ex. Il disco s’insinua negli angoli più remoti degli stessi ricordi dell’ascoltatore, trasportandolo per mano grazie anche alla presenza di alcuni personaggi fissi che ricorrono spesso nei testi (Charlie e Claire, ad esempio), mai banali e dalle chiavi di lettura più disparate. Particolarmente apprezzato è l’uso del clarinetto che accompagna benissimo tutto il contesto da night club che fa da sfondo alle vicissitudini narrate senza interruzioni, creando un filone continuo tipico di un libro narrativo. Il tutto si chiude con un perentorio “I found my way back home, oh, I’m already bored” che chiude il cerchio di una serata dal sapore agrodolce, iniziata con un semplice “I called up Charlie about a quarter past nine and said, “What’s going on tonight?“.

Voto: 7.7/10Davide Deleonardis

Owen Pallett – Island

Se non conoscete il nome di Owen Pallett probabilmente lo avrete ascoltato negli arrangiamenti, la composizione o gli archi di uno dei vostri dischi o film preferiti. Violinista e compositore di scuola classica, l’artista canadese ha collaborato con la metà del panorama indie (tra cui spiccano i primi album degli Arcade Fire e la colonna sonora di Her), ma il suo ultimo album (In Conflict) risaliva al 2014. Island arriva dopo anni tumultuosi, in cui l’album è stato lasciato in bozze per via di problemi personali, e quella sensazione di disagio e malessere pervade tutto il disco, in cui Pallett riprende l’alter ego Lewis già presente nella sua discografia, usato come specchio dei suoi drammi e voce di paure più profonde. L’opera è divisa in quattro atti delineati da aperture strumentali, e attraverso l’album gli arrangiamenti passano dal minimale (Transformer, Polar Vortex) evolvendosi sempre più nel corso dell’album, in cui Pallett dirige nient’altro che la London Contemporary Orchestra verso territori conturbanti (A Bloody Morning, Lewis Gets Fucked Into Space). Anche grazie alle possibilità infinite regalate dall’orchestra, Owen Pallett realizza uno dei suoi album migliori, un’opera estremamente contemporanea nata dagli strumenti più classici.

Voto: 7.5/10Claudia Viggiano

Dunque…

Di carne al fuoco ce n’è tanta, lo sappiamo. Una volta che avrete finito di spolpare questi 9 album, non dimenticatevi delle altre perle cantautoriali già pubblicate nel corso del 2020: partiamo ovviamente dal meraviglioso ritorno di Phoebe Bridgers con Punisher, senza dimenticare anche il nuovo Perfume Genius, che prende l’indie folk e lo porta in una dimensione tutta sua e personalissima. Abbiamo già parlato di Lost In The Country di Trace Mountains, il perfetto album primaverile, oltre che di Saint Cloud di Waxahatchee, songwriting di altissima classe.