Nell’ultimo periodo sono usciti un bel po’ di dischi circoscrivibili al macrogenere “elettronico”. Per fare un po’ d’ordine ne ho raccolti dieci, andando a sondare i variopinti territori che il termine contiene: idm, house, techno, ambient, R&B, dub, atmosfere geograficamente lontane e molto altro ancora. Ce n’è per tutti i gusti.

Kelela – Take Me Apart

Far rientrare il debutto di Kelela nel calderone elettronico perché uscito su Warp è un semplice pretesto per scriverne, non lo svilimento di un lavoro che è molto, molto di più. Take Me Apart è, in vetrina, songwriting elettronico, ma, in fondo, figlio illegittimo di idm e dub, un insieme omogeneo di momenti più bui e riflessivi e altri molto più pop-radiofonici. Le grandi produzioni (Arca, tra gli altri) non prendono però mai il sopravvento e, anzi, risultano perfetti accessori al cristallino estro artistico di Kelela, fiera protagonista del suo universo musicale e della sua arte. Ritornelli killer sbocciano come gemme tra pad e crescendo, beat fanno ballare lentamente, synth malinconici lacerano nell’oscurità, una voce pazzesca colpisce al primo ascolto. Take Me Apart è un disco che già dal titolo trasuda verità: Kelela si espone senza filtri, con le sue debolezze e le sue paure, ma anche nel suo lato più divertente e catchy; sempre e comunque, però, col petto aperto e le corde vocali incendiate. Sensualità, sessualità, eleganza nella forma, futurismo calato nell’odierno, tanta sostanza senza mai strafare né sbavare e tanto, tantissimo cuore.
Take Me Apart è una sincera commistione di elettronica e cantautorato (mi si passi il termine), tastiere e voce, un disco intenso che cresce abbinando profondità tanto testuale quanto musicale, cura per i dettagli e al contempo facilità d’ascolto popolare; è R&B che parte dai 90s e approda nel quarto millennio, è un manuale, concretamente realizzato, di come il pop contemporaneo dovrebbe utopicamente essere. Musica sopraffina per tutti i palati.

8.2/10

Four Tet – New Energy

Non mi piace dire “ve l’avevo detto”, ma io ve l’avevo detto, due anni fa, che Morning/Evening suonava come un probabile (maldestro e noioso) ritorno alle origini per il caro vecchio Four Tet e, nonostante il titolo, questo New Energy conferma la mia ipotesi.
Kieran Hebden torna a sondare il quotidiano di inizio millennio traslandolo però nel presente (Two Thousand And Seventeen), ché tanto è sempre universale nella sua natura fatta di semplicità e piccoli gesti eviterni. Nel paradigma musicale, questi momenti si tramutano in synth (LA Trance) e corde pizzicate con leggiadria (Alap), beat carezzevoli (You Are Loved) che sanno anche diventare slanci danzanti (SW9 9SL); un impolverato album di fotografie immortala momenti a cui ripensiamo con un misto di consapevole nostalgia e tenerezza (Memories). Una ventata d’aria che se non è fresca, almeno è positiva, confortevole (Planet).
Avete presente tutti i caffè che vi ripromettete di prendere con qualcuno che non vedete da anni? Ecco, New Energy è l’eccezione che conferma la regola, è il caffè che non va nel dimenticatoio del vivere, è una bella e piacevole chiacchierata con un amico di vecchia data che non è cambiato e non ha nemmeno perso lo smalto di un tempo.

7.2/10

Bicep – Bicep

Dopo molti remix, singoli e dj set di successo, quello dei Bicep era probabilmente uno dei debutti più attesi nel settore. Il disco, fuori per Ninja Tune, si rivela un contenitore di dodici piccole gemme,i cui loop brillano tanto di progressive house anni 90 quanto di garage e trance, sino a momenti più chillout, tutto in pieno stile UK. Aura e Rain sono miracoli pronti a incendiare il dancefloor, Kites, Spring e Opal ti implorano di chiudere gli occhi e di alzare le braccia con i loro build up infiniti, Ayaya, Vale e Aura sono il sottofondo migliore per qualsiasi cosa decidiate di fare. Arpeggiatori malinconici e pad sognanti, beat che fanno ondeggiare con garbo, vocal dosati egregiamente, paletta di suoni completa. Bicep è un album tanto maturo e ben prodotto, quanto il disco perfetto per i dj set al tramonto (senza mai essere cheesy), quelli fatti di sorrisi e gratuito amore cosmico verso sconosciuti. La colonna sonora di quando ti vuoi dimenticare tutti gli scazzi.

7.7/10

Ben Frost – The Centre Cannot Hold

Brutale, spietato, difficile da sopportare, caotico, rumoroso, insensato, sempre sull’orlo del collasso: questo è The Centre Cannot Hold, il nuovo album di Ben Frost, puntuale dagherrotipo storico-sociale del mondo odierno, in crisi. I titoli emblematici (A Single Hellfire Missile Costs $100,000 USD, Healthcare, All That You Love Will Be Eviscerated) rispecchiano un presente opprimente, mentre un futuro prossimo altrettanto mefitico è pronto a destabilizzare l’umanità a suon di bordate noise. I droni musicali sono i droni dei bombardamenti, i paesaggi sonori post-apocalittici sono teatri di guerre che nemmeno vediamo più al tg, tanto ne siamo avvezzi e al contempo disinteressati spettatori.
The Centre Cannot Hold è un lavoro crudo e doloroso nel significante e nel significato, è musica politica per davvero, musica che serve.

7.5/10

Kaitlyn Aurelia Smith – The Kid

Se usi i modulari per fare quattro scoregge altisonanti perché analogiche è un conto, se usi i modulari come Kaitlyn Aurelia Smith è ben altra cosa. Memore delle produzioni di una capostipite come Suzanne Ciani (e ho detto poco), Kaitlyn dipinge tele fantastiche cospargendole di innumerevoli elementi che trascendono il reale. Boschi fatati, viaggi interstellari, mondi abitati da creature fiabesche, atemporali amori disneyani dal risvolto epico-barocco che si fermano appena prima di stuccare: questi sono i racconti narrati dall’artista che, attraverso le sue soavi corde vocali e, soprattutto, i moduli del Buchla, riporta l’ascoltatore a Pascoli e alla poetica del fanciullino, attraverso la filosofia di Alan Watts. The Kid è un disco particolare, oserei dire quasi unico nel suo genere, maturo Peter Pan si presenta come il figlio più accessibile di un talento contemporaneo insostituibile.

7.8/10

Nosaj Thing – Parallels

Pad sognanti, beat spezzati di matrice hip hop, molti featuring di spessore (Steve Spacek, Kazu Makino, Zuri Marley) e bei suoni sono ottime premesse per il nuovo lavoro di Nosaj Thing. Il problema fondamentale è che tutto suona perennemente in potenza e mai realizzato appieno; la componente cinematica non esplode, un picco è irrintracciabile: è facile perdere il filo constatando che, banalmente, Flying Lotus ha già fatto, distrutto e reinventato tutto questo, anni fa.
Probabilmente, se abitassi a Los Angeles e stessi tornando a casa a notte fonda, sulla mia auto, con le luci della città che illuminano il mio volto assonnato, Parallels avrebbe senso. Di sicuro avrebbe più senso di quanto ne percepisca mentre risuona nelle mie orecchie, geograficamente situate nell’hinterland milanese. Ritorno a casa sbadigliando.

6.0/10

Pessimist – Pessimist

Dal selftitled di uno che si chiama Pessimist, uscito per di più su Blackest Ever Black, non è che ci potessimo aspettare il reggaeton o l’EDM, e infatti (grazie a dio). Ogni pezzo, causa anche una durata media di 6 minuti abbondanti, racconta una storia fatta di rarefatti ambienti oscuri e al contempo suadenti, solcati da beat spezzati che si evolvono con una lodevole dovizia di particolari, con uno spettro di rimandi che varia dall’hip hop al dub, passando anche per garage e drum & bass. Pessimist è musica che risuona durante un rave esoterico, animato da cappucci scuri che si muovono in danze sincopate attorno a fuochi fatui.

7.4/10

Levon Vincent – For Paris

“If you don’t like guns, you can get whatever maximum length knife allowable from your government” non è propriamente il miglior consiglio da dare al popolo francese, all’alba degli attacchi terroristici del 2015, e se possibile lo è ancor meno se sei un musicista con un certo peso pubblico. Tra scuse e non scuse, Levon Vincent si rimette alle macchine e cerca di trasformare in musica quella che rischiava di diventare sempre più un’epica arrampicata sugli specchi. Al netto di un artwork agghiacciante, il free download di questo For Paris è poi molto apprezzabile. Che il producer newyorkese fosse un abile creatore di soundscape da adagiare su un binomio cassa-basso club-oriented, è cosa nota; non sorprende, infatti, che i momenti migliori del disco siano quelli che sposano la riflessione sociopolitica (sia essa cupa o speranzosa) e la cassa dritta, mentre tutte le composizioni più “sperimentali” risultano alquanto posticce e noiosette. Anche i quattro quarti, però, talvolta mancano di dinamica e scivolano in una staticità un po’ troppo stagnante.
Nella vita si sbaglia e quindi bella per Levon che si è reso conto degli errori e ha riparato, pur con qualche passo falso, le crepe con la musica. Kissing, Slander e soprattutto Baseball ci faranno sicuramente ballare.

6.3/10

Pan Daijing – Lack

Sangue, sudore, carne. Lack, debutto dell’artista Pan Daijing su PAN, riempie le proprie vene di una corporalità così teatralmente sfrontata da diventare spesso di difficile gestione. Noise, dark drone, post industrial, synth che ora sono gocce di cristallo e ora grida di Lucifero, asmatici suoni gutturali, field recording e clangori orientali; un fugace episodio techno industrial rimescola le viscere. Le melodie e le percussioni sono così destrutturate che diventano altro, sino al culmine finale della splendida Lucid Morto. Lack è musica che si fa espressione di dolore senza filtri, contemporanea performance disturbante proprio perché reale.

7.4/10

Tzusing – 東方不敗 (trad: Dongfang Bubai)

Che disco. Che disco. È uscito a fine marzo e l’internet viaggia veloce e ancor più velocemente dimentica, lo so bene, ma il non parlarne mi avrebbe tormentato parecchio. Probabilmente il nome di Tzusing, produttore malese dall’identità ancora sconosciuta, non vi suonerà nuovo se bazzicate un po’ il campo, e se così fosse di sicuro conoscerete Floors Of Whores, traccia techno micidiale contenuta in un EP del 2015, ricercatissimo tra gli appassionati su discogs.
In questo 東方不敗 (tradotto: Dongfang Bubai), sempre fuori per L.I.E.S., le intenzioni sono già chiare dall’opener 日出東方 唯我不敗 (boh): elettronica corporale che si erige in un originalissimo connubio di industrial occidentale e tradizionali melodie asiatiche; prototechno ora spezzata ora dritta che incontra umide atmosfere equatoriali del sudest asiatico (King of Hosts) ma anche gelidi scenari postsovietici (Post Soviet Models).
東方不敗 è controcultura, è postcolonialismo musicale figlio del nostro tempo, ottima rappresentazione dello sgretolarsi di confini geografici, dei sempre più inevitabili contatti tra i popoli; è meltin pot artistico che impasta le ceneri di culture lontane e contrapposte, generando nuova linfa vitale; è elettronica che sonda la natura (Nature Is Not Created In The Image Of Man’s Compassion) e il liquido mondo dell’Internet (Digital Properties); è anche techno che aberra il machismo a cui spesso il filone viene accostato: Dongfang Bubai, personaggio di un racconto di Jin Yong, è infatti uno spadaccino che si evirò per apprendere l’arte marziale, divenuto oggi simbolo delle lotte LGBTQ cinesi.
Sette tracce musicalmente sopraffine, tematicamente attente; una potenza di fuoco micidiale che abbatte i muri e mette tutti d’accordo su un dancefloor oscuro: ciò di cui avevamo bisogno.

8.1/10