Abbiamo avuto la fortuna di incontrare i Libertines prima della loro esibizione qualche settimana fa ad Home Festival per fare una chiacchierata che definire informale è davvero un eufemismo.

Ad accoglierci nel loro camerino un festante Pete Doherty, con in testa un cappello da marinaio e indosso la maglia originale della Nazionale Italiana del Mondiale del 1990, il quale sembrava davvero di buon spirito nei nostri confronti e nei confronti dei colleghi con i quali abbiamo fatto l’intervista.

Ci accomodiamo sul divano mentre Carl Barât ci chiede se gradivamo un drink o qualcosa da mangiare dal ben di dio che gli organizzatori han riservato loro sul tavolo imbandito al lato del prefabbricato. Decliniamo gentilmente l’offerta e proviamo a scattare qualche foto, ma la luce non permette scatti memorabili.

Una breve ed intensa conversazione che in alcuni punti riesce ad essere davvero confusionaria, dentro la quale Carl e Pete, in vena di scherzare, fan fatica a mantenersi nei binari. Binari dai quali il bassista John Hassall sembra inizialmente non volersi avvicinare, rintanandosi per un po’ tra le sue spalle strette e le mani protese ma chiuse tra di loro; binari dove, invece, il batterista Gary Powell darà progressivamente sfogo al suo treno di pensieri.

Esempio di foto venuta davvero male.


DW: Partiamo subito da una cosa. Pete, vedo che indossi una maglia della Nazionale Italiana di calcio. Non essendo la prima volta che venite in Italia, ed essendo anche ad un festival dove si sono esibiti molti artisti italiani, c’è per caso un artista italiano che vi piace?

Pete: Leonardo da Vinci!

Tutti ridono.

Pete: Leonardo da Vinci è stato un ottimo esempio del passato. In realtà ci sarebbe un altro artista, ma non riesco a ricordarmene il nome…

Gary: Eros Ramazzotti!

Tutti ridono, ancora.

Barat: was like something like Martini? Martini?

Pete: Matinee? *Find me and follow me* (inizia a cantare Matineé dei Franz Ferdinand, ndr.). Beh, anche quel tizio lì, quello che recita. Quello che ha lavorato con Jim Jarmush

Barat: Quello de “La Vita è Bella“…

DW: Benigni!

Barat: Esatto, proprio lui. Volendo, anche Carla Bruni, una bella ragazza.

Pete e Barat iniziano a discutere delle abitudini della Bruni, che probabilmente Pete ha conosciuto ai tempi delle sfilate. Poi John Hassall ci chiede quali siano invece gli artisti italiani che potremmo consigliare loro. Partono varie risposte da parte nostra e dei colleghi. Da quel momento l’intervista si fa sempre più anarchica, con Pete e Barat che partono per la tangente, Gary Powell che prende la scena e Hassall che inizia a sciogliersi pur cercando di restare fuori dai giochi.

Inforcati dai colleghi, iniziano a parlare del nuovo disco.

John: Siamo arrivati a costruire un nostro studio di registrazione.

Pete: Tornare insieme in uno spazio nostro dove scrivere e suonare le nostre canzoni è stata una cosa simile al Risorgimento dei Libertines, ci siamo riuniti insieme a scrivere il nuovo disco lì e quel posto è il simbolo del Risorgimento dei Libertines.

Barat: Ad un certo punto si arriva qualcosa lavorando insieme, guarda gli occhi di Pete vedi come sorride? Guarda gli occhi di Gary vedi che sorride? Guarda ora gli occhi di John. Sorride. Ecco da questi occhi, dalla loro pigmentazione, vedo quello che sarà il nuovo album.

DW: Voi siete sulla scena ormai da più di un decennio, rispetto a quando avete iniziato le cose son cambiate molto. Cosa pensate della “scena indie” attuale e cosa le manca, in caso, o cosa pensate, comunque, della “scena” in generale?

Pete: Le persone ora sono in grado di fare tutto dalla loro cameretta, senza mai vedere la luce del giorno e senza mai andare a bagnarsi nel mare. E sai bene che uscire di casa e scontrarsi col mondo è l’unica maniera che possa far sì che la tua musica esca dalla tua cameretta. C’è quindi la sensazione che la gente ora non sia così appassionata o disperata al punto di creare una scena, possono fare quello che vogliono quando vogliono con i loro computer…

Gary: È una grande rivoluzione questa.

Pete: Non capisco se sia davvero una rivoluzione perché l’industria chiede che tu venda dei dischi…

Gary: L’industria musicale cerca ancora di dettare la linea verso quale direzione la musica debba secondo loro andare e punta tutto su quel tipo di cose à la Taylor Swift, punta tutto verso questi artisti di questo tipo, verso i quali cerca di spingerci con tutte le sue forze. Se vai sul tuo iTunes, o quando usi Spotify, gli unici banner pubblicitari che vedi riguardano solamente questi grandissimi artisti, ma non esistono banner che vadano a supportare gli artisti minori o nuovi. I nuovi artisti riescono comunque a generare un loro seguito generando le loro “scene”, condizionando le mode. Quindi in un certo senso la musica sta vivendo un bel periodo. Il problema vero nasce quando andiamo a vedere come la musica oggi venga monetizzata. Il modo in cui la musica viene monetizzata al giorno d’oggi è completamente ridicolo. Gli advertisers e le piattaforme prendono tutta la torta lasciando le briciole ai musicisti. Li obbligano a creare queste preview su queste piattaforme che possono essere Spotify, appunto, o tutte le altre. Ti dicono che verrai pagato ma quello che poi ti arriva davvero in tasca non è una cifra ragionevole, non è una cifra che possa permettere alle band di vivere della musica che fanno. Per questa ragione questi gruppi devono andare fuori dalla loro sala prove e fare più concerti che possono per riuscire a guadagnare abbastanza per poter sopravvivere. Mentre quello che dovrebbe succedere è questo: le piattaforme di streaming, il vostro Spotify, il vostro 7Digitals, il vostro Apple Music, dovrebbero arrivare a lavorare con gli advertisers per aumentare questo reddito, per poter quindi aumentare quello che arriva poi nei portafogli di chi suona. Perché la cosa che si scordano è che senza questi gruppi, senza questi artisti, non ci sarebbe alcuna piattaforma. Non esiste Spotify senza artisti. E questa cosa vale per gli U2, vale per Taylor Swift – per dire, Taylor Swift è uscita ora con la sua nuova traccia “Don’t Call Me Whatever…” o come cazzo si chiama, ha avuto più di un milione di stream per questa canzone ma solo trentamila download. Per cui è tutto basato sulla sponsorizzazione, e chi le paga queste sponsorizzazioni non fa in modo che il reddito vada a chi davvero conta in questo grosso ciclo, ovvero chi fa la musica.

Pete: Considera che noi stiamo ottenendo solo ora le royalties dalle piattaforme di streaming i soldi che avrebbero dovuto darci.

John: Quando abbiamo iniziato, più di vent’anni fa, non era affatto così. E in un certo senso, si stava davvero meglio.

Gary: Non dovrebbe funzionare così. Sta tutto lì.

I Libertines e noi avremmo volentieri continuato la chiaccherata a lungo, ma i tempi erano davvero stretti e incombevano i preparativi per l’esibizione. Pur non essendo riusciti a strappare loro delle informazioni sul nuovo album, abbiamo comunque capito meglio quale sia il pensiero di un gruppo sulla scena da oltre vent’anni su temi quali lo stato attuale della musica.

Qualche minuto dopo avrebbero infiammato Treviso con una performance energica e sudata, condita da successi della loro prima fase di carriera e quelli della seconda.

Alla prossima, Libertines.