Dopo il sorprendente esordio con La Macarena su Roma nel 2010, il 30 marzo 2015 è uscito DIE di Iosonouncane. Il disco è un piccolo capolavoro (ve ne abbiamo parlato QUI) che ha attirato l’attenzione di tutta la scorsa annata musicale italiana, prendendosi tante prime posizioni nelle classifiche di fine anno, un sacco di menzioni e di analisi.

Abbiamo parlato con Iosonouncane in stato psichedelico per via della sua operazione al dente del giudizio.

DW: Senti, io inizio a freddo: l’uomo in mezzo al mare di cui parli in DIE, può essere benissimo su un’isola?

I: L’uomo del disco è in mezzo al mare, ma è archetipico, è l’Uomo, con la U maiuscola. Ci sta che lo si veda come un uomo su un’isola, perché è una delle interpretazioni possibili dell’uomo solo in mezzo al mare. Forse il fatto che fossi sardo ha influenzato l’interpretazione.

DW: Ah, ok, ti spiego: io, da sardo, nel disco ho sentito un sacco la Sardegna, vuoi per il vento e il sole protagonisti, il booklet roccioso, vuoi per i sample dei mamuthones in “Mandria” (sono sample di mamuthones o me li sono immaginati io?), vuoi per Paolo Angeli che suona in “Buio”, altro sardo contemporaneo che si porta dietro una particolare “sardità”, vuoi per i tenores in lontananza. Parliamo inevitabilmente di Sardegna, della terra; quanto hanno influito tali origini? parlo di quell’insieme di sensazioni e influenze, quel rapporto con la terra particolare, una questione di scansione del tempo e stagioni.

I: Sì certo, sono mamuthones. Comunque la Sardegna ha influito molto. Considero l’identità come un divenire, però non posso prescindere dalle origini. Ci sono delle caratteristiche in me che sono invariabilmente sarde, e c’entrano con l’approccio al mondo. Credo sia anche una questione di paesaggio: abbiamo una densità abitativa bassissima, e queste distese che si ripetono sono la norma rispetto ai centri abitati. Hanno influenzato sicuramente la mia formazione.

DW: Ad un workshop quest’estate Angeli ha detto che “noi sardi abbiamo sempre bisogno dei bordoni musicali, dei suoni lunghi, ostinati, perenni, come fosse il suono antico del terreno della nostra terra sotto i piedi”. Io questo, in DIE, l’ho sentito, i suoni bassi e antichi venivano fuori anche dei sintetizzatori. Ti rivedi in questa affermazione?

I: Sì, a parte che sono d’accordissimo con lui. La musica sarda ha sempre avuto un approccio ciclico, dei ritorni. Questa forza reiterativa della musica l’ho sempre percepita, ma l’ho riscoperta dopo con la musica elettronica. Pensaci, il canto a tenore è praticamente un loop.

DW: Sì, come la musica minimalista, o la drone, tutta musica basata su ripetizioni infinite e minimi cambi; poi vai a sentire i canti a tenore e sono delle ripetizioni infinite con cambi. Senti, in DIE ci saranno trecento, quattrocento vocaboli in tutto, e tutte parole premoderne in qualche modo: fame, sete, sole (trentaquattro volte), solchi, rive, giorno, buio. Il minimalismo dei testi di DIE mi ha colpito molto, e la vicenda narrata secondo me anche per questa caratteristica ha dei contorni quasi mitici. È una scelta deliberata o è stata piuttosto una conseguenza del tema che volevi affrontare?

I: Appunto continuamente bozze di beat o frammenti di melodie, ma è solo una volta terminato il tour che riesco a dedicarmici pienamente e a lavorare in modo organico, strutturato. Nell’autunno 2012, chiuso il tour de La macarena su Roma, sono ritornato in Sardegna e ho messo mano al materiale accumulato nei due anni precedenti. Alcune sequenze melodiche erano fra loro legate da uno stesso sentimento di fondo e da alcune parole, pochissime e ricorrenti, emerse fin dalla primissima stesura. Sulle melodia di quelli che erano allora gli embrioni di “Tanca”, “Stormi” o “Buio”, avevo in alcuni casi frasi compiute o immagini definite, ma principalmente mi ritrovavo a cantare in modo ossessivo le stesse parole: sole, rive, sale, morte, fame, sete. Inizialmente non è stato semplice affrontarle, poiché venivo da un disco prosaico e verboso, nato a partire dalla volontà di dire determinate cose. Ho dovuto quindi fare i conti con il desiderio di cantare ripetutamente queste parole e con la necessità di affrontare un metodo diametralmente opposto rispetto a quello che portò a La macarena su Roma. Mi sono quindi interrogato a lungo sul significato di questa necessità, e per farlo ho inevitabilmente lavorato intorno a queste stesse parole, indagandole singolarmente e insieme. Ho capito che al fondo vi era una volontà di rivendicazione, di liberazione, e che stava nella concatenazione stessa di queste parole e delle immagini la costruzione narrativa.

DW: C’è in tutto il grande catalogo di interviste e recensioni e opinioni su DIE qualcosa che ancora c’è sfuggito, un’interpretazione chiara che tu hai pensato e che ancora non è stata colta?

I: Ci sono tantissime cose che non son state colte, soprattutto direi richiami interni tra i testi. ci son delle cose che alcuni colgono, elementi che io avevo premeditato o meno, tant’è che sono andato e cercare alcune interpretazioni. Mi è piaciuta l’analisi approfondita che è stata fatta da minima&moralia in cui si mettono in evidenza tutti i richiami nei testi, la struttura speculare dei brani rovesciati eccetera eccetera. Però posso dire che DIE mi ha dato tutte le soddisfazioni che pensavo mi desse. Le persone stanno ascoltando il disco e le interpretazioni sono coerenti con le aspettative, quindi va veramente bene.

DW: La tua musica è particolare: si sente fisicamente, coi suoni bassi e profondi, ma allo stesso tempo è intelligente, cervellotica, da qui tutte le varie interpretazioni che son state date; quando sei sul palco, quando sei in solo, come si fronteggia un pubblico che può aver recepito il disco in così tante maniere diverse? Qual è il rapporto col pubblico e come preferisci vederlo ai tuoi concerti?

I: Il pubblico che ascolta attentamente non mi piace, devo essere onesto. È un disco agitato. In caso stiano seduti mi girano i coglioni e lo sento un disco debole, diciamo che non sono un amante della musica che si ascolta da seduti. O meglio la ascolto, la amo, però in casa. Durante i concerti non penso al pubblico, semplicemente penso a quello che sto facendo, quindi quello che percepisco dal pubblico è quello che il pubblico fa arrivare, una risposta a quello ciò che faccio.

DW: A questo proposito come ti è piaciuta di più la dimensione live? In solo, in duo acustico? Hai intenzione di andare in tour con una band di supporto?

I: Il giro con la band di supporto lo faremo a breve, quindi vedremo un po’ come sarà. Sicuramente molto divertente. Così come il set elettronico e il set acustico eh. sono tutte vesti possibili dei brani. La mia dimensione ideale però è quella domestica, cioè quella da studio, da quella non potrei mai prescindere. Invece ai concerti, per quanto mi piaccia stare sul palco, mi piaccia il concerto in sé, potrei rinunciare anche domattina.

DW: Ti chiudi in studio e fai come i Beatles?

I: Ah non sarebbe male, è che quella cosa lì la puoi fare solo quando hai una valanga di soldi [ride, ndr].

DW: Ah ancora niente valanga di soldi quindi? Peccato.

I: No no, magari [ride, ndr], assolutamente no.

DW: Senti, sulla tua pagina Facebook parli del “ciclo di DIE che si chiuderà”. Cosa intendi, cos’è il ciclo di DIE?

I: Il ciclo di DIE è fondamentalmente il ciclo di vita promozionale del disco; intendo l’arco temporale che mi vede impegnato pubblicamente dalla promozione del disco ai concerti; poi il disco va sulle sue gambe.

DW: Avevo pensato a qualcosa di più esoterico, o insomma che riguardasse tutte le facce che il disco può assumere nelle varie dimensioni live che stai provando – tre vesti diverse in un anno e mezzo. Senti, ma dobbiamo aspettare altri 4 anni per un disco nuovo? Capiamoci, se il calibro è lo stesso dei primi due va bene eh.

I: Non so né assicurarti né assicurarmi il contrario, quindi stiamo a vedere cosa succede.

DW: Vabbene dai, te la butto lì: il disco dell’anno del 2015?

I: Beh, chiaramente DIE.

E voi, l’avete ascoltato?