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Mercoledì 18 Febbraio i Be Forest hanno presentato Earthstrings, il progetto che vede il trio Pesarese proporre Earthbeat, il loro secondo album, in una nuova veste arrangiata per essere accompagnata da un quartetto d’archi.

I Be Forest hanno dimostrato di essere indiscutibilmente una delle più promettenti band italiane fornendo l’ennesima prova di forza durante un concerto intimo, sincero e quasi magico. Abbiamo incontrato Costanza, Erica e Nicola al termine del loro live per farci raccontare com’è nato il progetto, la loro crescita artistica, l’avventura a KEXP e i loro piani per il futuro.

DW: Ciò che più mi ha colpito di Earthbeat è la sua coerenza, la sua capacità di raccontare una storia. Una storia con una intro forte come Totem: percussioni che evocano il battito del cuore, un cuore che si apre traccia dopo traccia e che, da solo, conclude il disco proprio come l’ha introdotto, chiudendo il cerchio. Ma non solo, anche lo stesso nome dell’LP, i titoli delle singole tracce e l’artwork contribuiscono ad immergere l’ascoltatore nella vostra “foresta”. Era vostra intenzione creare una sorta di concept album o è stato il frutto naturale dell’evoluzione della vostra identità musicale e dell’opportunità di utilizzare synth e percussioni?

Nicola: Diciamo che sono state entrambe le cose. Per quanto mi riguarda i nativi americani mi hanno sempre affascinato: si tratta di uno dei popoli che ha vissuto a più stretto contatto con la natura ed è un concetto che era già presente nel nostro nome. Con Earthbeat abbiamo voluto creare un immaginario, una storia che vertesse sul rapporto con la natura e che riprendesse alcuni aspetti della musica dei nativi americani. Allo stesso tempo nel creare il secondo album abbiamo sentito l’esigenza di esplorare un altro mondo, quello di synth e percussioni, e fortunatamente abbiamo trovato il quarto componente che poi ci ha lasciati.
Erica: Messa così sembra che sia morto…
Costanza: Ha preso un’altra strada, è andata così.
Erica: C’era in noi la volontà di creare un suono che fosse più pieno e di creare un album che avesse un inizio e una fine; per riuscirci abbiamo cercato di includere altri strumenti per far sì che il suono fosse più pieno e più coerente anche passando da traccia a traccia.

DW: L’atmosfera del nuovo disco contrasta fortemente con quella di Cold. Credete di aver dato vita ad una profezia autorealizzante? Mi spiego meglio: che sia stata proprio la volontà di creare un disco più solare, caldo, ottimista ad averlo reso più appetibile, contribuendo al vostro successo internazionale?

N: Secondo me no. Sicuramente non l’abbiamo fatto con l’idea di aprirci nuovi orizzonti.
E: Io lo vedo un album più difficile rispetto al primo. Cold era fatto di canzoni che potevano avere una loro vita singolarmente. Questo album è molto più complesso sia a livello di strutture che nel suo insieme.
C: La coerenza potrebbe, sotto alcuni aspetti, rappresentare un aspetto negativo per alcune persone. Non è un disco che puoi ascoltare un pezzo ogni tanto; lo devi ascoltare tutto, dall’inizio fino alla fine, per capirlo bene.
N: I due dischi, assieme, sono lo yin e lo yang: uno freddo, l’altro caldo, uno scritto più di getto, l’altro più ragionato. Insieme si completano. Questo rende il prossimo disco un grosso mistero. Magari torneremo alle sonorità di cold, oppure sceglieremo di restare su queste, o potremmo fare tutta un’altra cosa, ma per ora il primo e il secondo album si completano abbastanza, è come se avessimo chiuso il cerchio.
E: Perciò adesso che il cerchio si è chiuso abbiamo finito di suonare?
N: No, adesso il terzo è un’incognita, vedremo cosa diventerà. Magari Metal!

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DW: Parliamo di Earthstrings: com’è nata l’idea e quale processo è stato seguito per concretizzarla?

N: L’idea è nata un po’ per gioco. Ci è stata data la possibilità di suonare in un piccolo teatro a Pesaro e lì abbiamo valutato la possibilità di creare qualcosa di nuovo, di presentare il live sotto un’altra veste dato che eravamo in un contesto diverso. Con la nostra etichetta, la We Were Never Being Boring, abbiamo discusso la possibilità di introdurre un quartetto d’archi. Conoscevamo una violoncellista, Daniela Salvoldi, e le abbiamo chiesto se avesse voglia di aiutarci a dar vita al progetto; è stata lei ad arrangiare tutti i pezzi. È stato un bel banco di prova, è stato divertente confrontarci con una realtà che non conoscevamo, anche perché si tratta di puristi della musica classica, ad esempio durante il sound check gli dava fastidio il riverbero. Però, tutto sommato, è andata bene.

DW: L’introduzione degli archi colma quel vuoto nel vostro spettro sonoro che in Earthbeat era stato occupato dal quarto membro. Questa scelta è stata forse dettata dal desiderio di reintrodurre nella performance live un registro che altrimenti avreste potuto riprodurre solo con le basi? 

N: Non è stata una scelta nata dalla volontà di rimpiazzare il quarto membro. Inizialmente avevamo pensato di tenere anche le basi, ma alla fine abbiamo deciso di toglierle completamente perché avremmo avuto davvero troppi elementi. Sicuramente il live proposto in questo modo è totalmente diverso dal disco, la base è quella, ma magari una persona che l’ha ascoltato in un certo modo si è trovata spiazzata durante il concerto. Ritengo però che si debba andare ad un concerto con la volontà di ascoltare una performance dal vivo, senza avere l’aspettativa che si vada a riprodurre fedelmente la registrazione. D’altronde l’abbiamo dichiarato, è Earthstrings, non Earthbeat, abbiamo portato qualcosa di volutamente diverso.

DW: Un progetto del genere sembra molto complesso da portare in tour: studiare come gli archi si adattino a location talvolta molto diverse può essere un grosso impegno, tant’è che spesso l’idea di “rivisitare” un album prende forma unicamente all’interno di uno studio di registrazione. Non trovate sia una scelta audace quella di inaugurare Earthstrings dal vivo?

E: È più rischioso, sicuramente, però alla fine il nostro lavoro è quello di suonare. Limitarci a registrare un disco non sarebbe stato così appagante, così emozionante.
N: Siamo concentrati sul live, sul tour, vogliamo presentare un disco che ormai è uscito da un anno e mezzo in un modo nuovo. Bene o male abbiamo girato tutta l’Italia e questo era un modo per non suonare sempre le stesse cose allo stesso modo. Abbiamo trovato una forma diversa per far sentire quello che facciamo.
E: Il punto iniziale è stato la possibilità di suonare in un teatro, perciò la nostra volontà era quella di creare qualcosa che fosse più coerente col luogo in cui sarebbe stata presentato. Introdurre elementi più classici ci è sembrata la soluzione ottimale. Avevamo già suonato in alcuni teatri in Europa, ma il fatto di introdurre degli artisti già abituati a suonarci è stato tutto un altro paio di maniche.

DW: Sembra che abbiate avuto poco tempo per prendere fiato. Dopo aver girato l’Italia, l’Europa e gli Stati Uniti avete ora in programma di tornare di nuova in Europa in Primavera; una fortuna che poche band italiane hanno conosciuto. Nell’organizzare il tour e durante il tour stesso avete mai percepito sulla vostra pelle lo stigma di essere italiani?

N: Assolutamente no. Ci ha fatto piacere andare a suonare fuori dall’Italia e scoprire che c’è gente che già ci conosce, vedere dei fan che hanno comprato il nostro disco e lo portano al concerto per farselo firmare; è un evento che qui si vede solo per band straniere ed è qualcosa che non ci si aspetta e che rende orgogliosi. È un’idea diffusa quella che se sei italiano non potrai fare un cazzo fuori dall’Italia, ma non abbiamo realmente mai vissuto questo rifiuto nei nostri confronti.

DW: Avete avuto l’onore di suonare a KEXP, la radio che ha accolto alcune tra quelle che ritengo le migliori performance dei miei artisti preferiti. Ci raccontate com’è andata? È più difficile suonare in un locale davanti a centinaia di persone o in un piccolo studio di registrazione sapendo però che la performance sarà visibile a migliaia di persone in tutto il mondo? 

N: Ti racconto tutta la storia, è una storia molto simpatica: siamo partiti per Seattle da Portland alle 22.30 e il viaggio è durato tutta la notte. Siamo arrivati a Seattle alle 6 di mattina e alle 8 dovevamo essere negli studi di KEXP. Abbiamo dormito un’ora. Siamo arrivati lì e ci hanno detto che ovviamente ci saremmo esibiti in diretta radiofonica. Se avessimo scazzato l’avrebbero sentito tutti. Per sempre. Poi, ovviamente, qualche cazzatina l’abbiamo fatta, ma va bene così, siamo umani, non siamo macchine. Eravamo emozionati, ma siamo contenti. Anche noi, come te, abbiamo guardato un sacco di loro video su YouTube e dai video la stanzina sembrava molto più grande.
E: È piccolissima. Ci sono 3 cameramen, il presentatore, un fotografo e, dall’altra parte, il fonico. È veramente una stanzetta minuscola, è tutto bello compresso con queste persone che ti guardano da tutti i punti di vista alle 8 di mattina, dopo aver dormito un’ora.
N: Ci siamo svegliati, non abbiamo fatto colazione, eravamo agitati, con una sensazione di vomito. È stata dura. Poi sapendo che ci avrebbero fatto un’intervista abbiamo anche avuto il timore che il presentatore avrebbe parlato velocissimo e non avremmo capito un cazzo, finendo per fare una figura di merda pure lì. Dai, è stata una grandissima emozione.

DW: Vi preoccupava il fatto che i video sarebbero finiti online e potenzialmente commentati da un ampissimo pubblico?

N: È già capitato di ricevere commenti online. C’è gente che ci odia, gente a cui stiamo simpatici. Dei giudizi sinceramente non me ne importa un CAZZO (mi è stato chiesto di scriverlo grosso, ndr).
E: Ormai i commenti non fanno né caldo né freddo, ovvio che se sono positivi fanno più piacere, ma l’importante è il fatto di essere lì, il nostro obiettivo era quello di fare un’esibizione decente a KEXP.

DW: Japandroids, Crocodiles, Slowdive: avete aperto per alcune band di tutto rispetto. Invertiamo la prospettiva: è il 2016 e state organizzando un tour mondiale per un disco che ha riscosso un successo clamoroso, chi chiamate come gruppo spalla?

N: Probabilmente una band italiana perché ci piacerebbe continuare a sostenerci tra band connazionali, non avrebbe senso portarne un’altra. Sarebbe sicuramente una band che ci piace, non una di quelle che magari ti impongono le etichette discografiche. Potrebbe essere una band di Pesaro: a Pesaro ci sono un sacco di band. In fondo quando pensi ad una scena ti immagini un solo genere musicale, ma a Pesaro ci siamo noi, Soviet Soviet, Brothers In Law, General Decay, Damien*. Per quanto siano caratterizzati da suoni diversi, hanno lo stesso filone. Ma ci sono anche tante altre realtà come I Camillas, Maria Antonietta, … Sarebbe difficile scegliere.

DW: Nonostante abbiate alle spalle solo due LP, avete già calcato moltissimi palcoscenici e maturato una buona esperienza internazionale: qual è stato il momento più difficile della vostra carriera?

N: Stasera siamo stati molto sotto tensione. È la prima volta che presentiamo il progetto ed è qualcosa di completamente diverso da quello a cui siamo abituati e purtroppo non abbiamo avuto modo di fare molte prove. In realtà anche la prima data con i Japandroids è stata molto emozionante, avevamo un bel po’ di strizza, ma anche con gli Slowdive l’estate scorsa a Padova è stata una data bella tesa.

DW: Dopo il tour primaverile, che programmi avete? Siete già proiettati verso il prossimo album o è giunto il momento di staccare la spina per un po’?

N: Ti dico subito, ora andremo in tour in America, poi in Europa e poi ci fermeremo per un mese. Faremo qualche data estiva e probabilmente a Settembre uscirà il primo singolo dei Brothers in law. Nel frattempo faremo il prossimo album dei Be Forest.

Che altro dire se non che non vediamo l’ora?