Il cinema Arcadia di Melzo da fuori è un parallelepipedo di cemento armato con qualche oblò come finestra. Uno dei classici memento su come non gestire le concessioni pubbliche.

Dentro però, nella sala Energia, ha uno degli schermi più grossi in Europa e uno dei migliori impianti di riproduzione audio-video in circolazione (sulla pagina Facebook dicono che si tratta de “la più grande configurazione installata al mondo del nuovo impianto audio MEYER SOUND – DOLBY ATMOS™”). Nel tentativo un po’ letterale di valorizzare questi asset prima della proiezione di Dunkirk, e dopo i classici venti minuti di trailer e pubblicità, i gestori ci hanno tenuto a mostrare un’intervista a Christopher Nolan (ormai indistinguibile da Aaron Sorkin con accento british) che spiegava perché vedere il film in 70mm. Il film, l’esperienza visuale del film, orbita intorno a questa idea di soggettività per cui i 70mm restituirebbero con maggiore nitore e la resa analogica delle sfumature l’immersione nel racconto di questa sequenza incessante di violenze senza senso che è la guerra.

Il film (scritto e diretto da Nolan) racconta un episodio minore e relativamente poco felice della seconda guerra mondiale: Dunkirk è una piccola cittadina sulla costa francese (Dunkerque il nome del paese in francese) dove alleati inglesi e francesi battono in ritirata durante l’offensiva nazista del 1940. Stretti tra la città e la costa, costantemente sotto attacco, assediati da terra, acqua e aria, 400mila soldati devono tornare in patria. Per farlo avranno bisogno della collaborazione, del coinvolgimento di imbarcazioni civili: gozzi cabinati per gite domenicali, pescherecci scassati e barche a vela da aperitivo. Dunkirk è il racconto, credo, di come in un momento di apparente sconfitta definitiva, ci siano stati episodi di partecipazione e solidarietà che hanno contribuito a fondare un’Europa e un mondo nuovi.

A parte questo Dunkirk mi è parso un mediocre film di guerra, che usa escamotage narrativi in maniere approssimative (i tre archi incrociati che si risolvono assieme, ma non proprio assieme: Magnolia e 21 grammi sono solo due esempi di come si fa, bene, la stessa cosa), che impiega soluzioni visuali oramai datate (Spielberg con Salvate il soldato Ryan questa cosa della camera come presenza soggettiva senza soggetto l’aveva già fatta nel 1998) e che costruisce psicologie minime dei personaggi impedendo la rappresentazione di qualunque tipo di sviluppo o crescita.

Tutti questi dettagli poco convincenti non tolgono nulla allo spettacolo di vedere ammarare un vero spitfire nell’oceano, al ricordo di effetti speciali muscolari ma mai patinati (mai americani direi), ma soprattutto non riescono a oscurare il valore e il significato di una sonorizzazione che forse racconta più del film stesso.

Composta da Hans Zimmer, che segue Nolan ormai dal primo Batman de “la trilogia di Nolan”, la colonna sonora di Dunkirk è totalizzante e infinita. Per certi versi mi ha ricordato lo score de Il petroliere (There will be blood), nella misura in cui la musica è, più che un commento, una voce che costantemente dice lo stato emotivo in cui si svolge la narrazione.

Ci sono dei temi, nella composizione di Zimmer, che tornano anche in questa colonna sonora: il ticchettio con cui si apre il film, già in Interstellar e in Sherlock Holmes di Guy Ritchie, le iterazioni, i crescendo potenti, le orchestrazioni voluminose (vengono in mente Il gladiatore di Ridley Scott o God Yu Tekkem Laef Blong Mi composta per Mr. Nobody, di Jaco Van Dormael), qualcosa di simile agli spinning plates dei Radiohead che ricordo in Inception. In Dunkirk però c’è qualcosa di più.

Con l’eccezione, ovviamente notevole, del finale, che segue Tom Hardy alla guida di un vero Supermarine Spitfire mentre atterra su una spiaggia senza confini, costeggiando un tramonto che annuncia già una novità, l’unico stato emotivo raccontato dal suono (che è solo a tratti una musica) è la tensione.

Una stessa identica tensione, un’unico mare, un solo oceano, che si produce in onde più o meno alte, con più o meno schiuma, contro scogli, moli, cadaveri, che esplode e si ricompone, che aggredisce e sempre minaccia.

Per costruire questa tensione infinita Zimmer fa ricorso a una tecnica, lo Shepard tone, un’illusione acustica che si ottiene giustapponendo scale separate da ottave. Tenendo un’ottava intermedia costante e giocando col fade out e in delle ottave sopra e sotto si ha l’impressione di un pitch che va solo verso l’alto, sempre più su, all’infinito appunto.

Di per sé, questo trucco fa poco, però. È lo stesso che si sente quando Super Mario sale le scale: stranisce e mette un po’ a disagio, ma non racconta nulla: è l’equivalente, in suoni, della spirale dei barbieri. È quando diventa il suono di una fuga senza apparente destinazione, quando è la colonna sonora di un luogo da cui scappare verso un altrove che è qualunque cosa purché sia qualcosa, che questo effetto riesce a emozionare.

Forse, in questo, la colonna sonora di Zimmer riesce dove il film ha fallito: nel raccontare, senza retorica, come sola esperienza estetica, la guerra come uno stato di costante tensione al nulla, come l’infinita attesa di una violenza che tutto redime tutti salva.

E poi c’è Harry Styles che è bellissimo, ciao.

Cast GIFs - Find & Share on GIPHY