Con l’uscita di Loro 2, il secondo (e ultimo) capitolo della storia con cui ha tematizzato la nostra (italiana) ossessione per i soldi e per la figa (e quindi per Berlusconi), si conclude un percorso ideale in cui, assieme al suo fidato sceneggiatore Umberto ContarelloPaolo Sorrentino ha detto tutto quello che aveva da dire sulla sua idea di cinema (non lo dico io eh, è quello che ha risposto a Malcolm Pagani per Vanity Fair).

Si chiude un ciclo, quindi, e a questo punto vale la pena tirare una riga e mettere insieme tutte le scene di Sorrentino che sono diventate pezzi di cultura pop. È una striscia lunghissima, ovviamente, ma un sottoinsieme interessante di queste è attraversato da un fil rouge: sono scene in cui la musica (rigorosamente non originale) è un pezzo del racconto, distrae per qualche secondo dai personaggi e ce li restituisce con una psicologia più precisa e dentro una trama, invece, con meno significato (più surreale, diciamo).

Quindi, di seguito le 6 canzoni che hanno reso indimenticabile il cinema di Paolo Sorrentino.

Ornella Vanoni – Rossetto E Cioccolato

Chiedete a qualunque amico vostro sedicente cinefilo e vi risponderanno tutti che i due migliori personaggi mai immaginati da Sorrentino sono, nell’ordine, Tony Pisapia (L’uomo in più, poi tramutatosi nel Tony Pagoda dei romanzi) e Titta di Girolamo (Le conseguenze dell’amore).

È proprio questo secondo personaggio, il protagonista della prima scena, accompagnata dalla prima canzone. Titta è una specie di contabile, ragioniere, prestanome della Mafia che sta a Lugano, costretto da un passato affare finito male, a occuparsi, ogni settimana, del trasferimento e del deposito di denaro contante dall’Italia. Vive in un albergo, si fa di eroina tutti i mercoledì mattina, non dorme praticamente mai e a un certo punto si innamora (della nipote di Anna Magnani).

Quando si innamora fa una serie di minchiate (la principale è regalare una BMW alla tizia) che indispettiscono i suoi ‘datori di lavoro’ che quindi lo convocano per un processo sommario. Mentre viene scortato in macchina nella sala congressi dove sarà interrogato, l’autoradio manda Rossetto e cioccolato, cantata dalla Vanoni. È in questo momento, vedendo i mafiosi canticchiare a mezza voce e la faccia preoccupata di Titta, che capiamo che il vero peccato che ha condannato Titta non è l’amore per questa ragazza, ma la sua vocazione a prendersi troppo sul serio, la sua incapacità di cogliere quello che c’è di ridicolo e insensato nelle cose che ci capitano.

Renato Zero – I Migliori Anni

Il Giulio Andreotti de Il divo è, assieme al Silvio Berlusconi di Loro 1 e 2, l’esperimento più riuscito di reclutamento di un carattere inscritto così a fondo nell’immaginario collettivo da non poter essere rappresentato se non come maschera da commedia dell’arte. Andreotti (così come poi Berlusconi) si muove come una caricatura, è ridicolo, senza sentirsi ridicolo. Ha difetti esagerati e tratti disumani: la distanza dalla realtà di Andreotti e l’allucinazione (che è una forma di eccessiva vicinanza alla realtà) di Berlusconi sono due modi dello stesso racconto.

Anche qui è un momento musicale, credo, a rivelare però in maniera eclatante che l’uso della maschera per la messinscena di questi personaggi reali non è pretestuoso, perché solo nella tensione tra la maschera (che è il nostro ricordo sommario, la memoria superficiale di una cronaca mai approfondita all’epoca dei fatti), nella tensione tra la maschera e l’uomo si intende la specialità irriducibile di questi personaggi.

Quando Andreotti rincasa e comunica a sua moglie Livia che verrà processato per associazione mafiosa, la moglie gli dichiara una fiducia istintiva e immotivata, gli dice che lo conosce, che non si passa una vita accanto a una persona senza conoscerla. E poi si mettono di fronte alla TV e, per non assistere alla satira becera di Beppe Grillo o alle versioni dei fatti dei telegiornali, si sintonizzano sul concerto di Renato Zero che canta, assieme al suo pubblico sorcino, I migliori anni della nostra vita.

Come incalza il refrain (con un tiro che mi fa venire i brividoni ogni volta), Andreotti prende la mano a sua moglie, senza guardarla. Senza rivelare crepe, ci spiega che c’è un amore infinito, una stanchezza e un coraggio timido nei gesti infinitesimi con cui punteggiamo le nostre giornate: nelle occhiate furtive ai nasi troppo grossi delle nostre compagne che dormono, nel rumore dei cucchiaini che agitano il caffè, nelle canzoni cheesy che ascoltiamo in sessione privata su Spotify, nel sorriso sgarbato con cui chiudiamo le conversazioni tra colleghi.

The Album Leaf – Over The Pond

Ho sempre considerato L’amico di famiglia un remake de Le conseguenze dell’amore. E forse ho sempre avuto ragione. La storia dei due film è pressoché identica: un diseredato (per qualche motivo, un fantasma passato, origini umili o provinciali, generiche colpe da scontare) ritrova il suo precario e sgangherato equilibrio (uno maneggiando i soldi della Mafia, l’altro facendo lo strozzino), ma finisce per mandare tutto a ramengo quando (ri-)scopre il potere inenarrabile della gnagna (qui interpretata da Laura Chiatti).

Ne L’amico di famiglia il freak senza speranza è Giacomo Rizzo che interpreta Geremia de’ Geremei, un usuraio (che ha ereditato il bisinìs dal padre) detto ‘Cuoredoro’. Rizzo ha un rapporto morboso con la madre (ma alzi la mano chi qui invece no EHEHEH) che gli rinfaccia, in sostanza, di non essere bravo quanto il padre a fare il suo mestiere. A una certa il padre della Chiatti chiede a Geremia dei soldini per il matrimonio della figlia e in cambio del prestito Geremia, detta male, ma alla fine va circa così, chiede di andare a letto con la ragazza.

Da qui inizia tutta una macchinazione complicata che ha lo scopo principale di inculare tutto quello che ha allo strozzino, usando la Chiatti come esca. Nella scena di cui parliamo Rizzo, inebriato dall’amore che pensa di avere trovato, recupera il coraggio per mandare a cagare (all’ospizio) sua madre.

Il pezzo su cui vediamo la Chiatti, nuda, a letto con Rizzo è uno di quegli infiniti “piano + chitarre + rumorini e roba tensiva elettronica” che andavano e che mi facevano sballare a fine anni ’00 (i Library Tapes, i Tunng, ma pure un po’ i Lali Puna; tutta roba che continuo ad ascoltare anche ora peraltro). La Chiatti si gira verso la macchina da presa, Rizzo la accarezza e lei sembra rimuginare, cercare l’energia per fingere l’amore, mentre lui, dal canto suo, ha già speso tutto (i soldi e la forza) per potersi concedere ancora il disincanto e si avverte nell’espressione sua quella forma di abbandono che è l’amore, l’ultimo baluardo di resistenza insensata contro la logica del capitale, dicono Zizek e Badiou.

The Talking Heads – This Must Be The Place

Nei film di Paul Thomas Anderson, ma ditemi voi se è un’impressione mia, è come se ci fosse SEMPRE della musica in sottofondo. Qualunque scena è musicata, come in Pierino e il lupo. Al punto che i momenti di silenzio (mi viene in mente la sequenza finale di There will be blood, che a memoria è solo audio in presa diretta) sono quasi sempre i più enfatici, come se spogliare della retorica della musica fosse un modo per lasciare la scena a dei momenti più ‘autentici’ (qualunque cosa voglia dire autentico).

In Sorrentino mi sembra di avere individuato un escamotage analogo, ma diverso: quando ci sono dei momenti da sottolineare, la musica ‘invade’ la finzione del film, è suonata dentro il film per i personaggi del film. Questa scena di This must be the place è uno di quei momenti: Sean Penn, di fronte al ragazzino che è convinto che la canzone sia degli Arcade Fire, prima ci discute alla pari (da bambino mai cresciuto qual è fino a poco prima della fine del film, quando, accendendosi un proverbiale paglione passa all’età adulta) e poi decide di suonare con lui.

Facendolo, sembra intuire, forse per la prima volta nel film, che c’è un ruolo (quello di padre) a cui ha abdicato perché non è stato in grado di perdonare il suo, di padre. Suonando inizia a capire che è rimasto incastrato in questo limbo di ribellione adolescente a qualcuno e qualcosa che ormai non esiste più.

Per la prima volta, forse, coglie l’ironia nel testo di quella canzone, mentre viene cantata male, fuori tempo, da un ragazzino innamorato del proprio, di papà.

Fabio Concato – Che Domenica Bestiale

Loro 1.

Silvio Berlusconi sta cercando in maniera risoluta e adulta di riconquistare Veronica Lario. Lo fa con il professionismo scanzonato che conosciamo nel Berlusconi reale: comprando gioielli, facendo lo scemo con lei, smettendo di fare il pirla con gli altri. Ma lei resiste, è antipatica e distante come le donne tradite.

È solo alla fine di questo primo atto che – credo e lo dico così, ma meriterebbe una riflessione più approfondita – è il culmine di tutta la filmografia di Sorrentino, è alla fine di questo primo atto che il personaggio di Berlusconi va oltre la disillusione con cui racconta barzellette che non fanno ridere per vedere se ridiamo. Porta Veronica e la sua faccia stanca su una moto d’acqua (lui in camicia bianca sotto il giubbotto salvagente) e poi sembra spegnere di proposito la moto, fingendo che si sia rotta e poi pare far venire il temporale apposta, sembra governare la natura selvatica e sparsa della Sardegna (mentre l’Italia è imbizzarrita e rifiuta il suo tentativo di governarla), la riporta a riva (non si capisce come) e, proteggendola e proteggendosi dalla pioggia la accompagna sotto la giostra, a Villa Certosa (giostra corredata, come tutti gli oggetti significativi lì, da una didascalia letterale “La giostra”). Mentre la giostra gira piano, senza musica da carillon, lei, come provando un’ultima volta a concedersi a lui (ma con quel gusto per il capriccio confermativo delle donne senza speranza) chiede a Berlusconi se ricorda la loro canzone. E lui risponde di no, che non riesce proprio a ricordarla.

Questo mentre Fabio Concato si avvicina alla giostra suonando Che domenica bestiale. La loro canzone.

Lei sorride.

Titoli di coda.

Nada – Senza Un Perché

I titoli di coda sono un feticcio da studentessa del DAMS (esiste ancora il DAMS?). In Santa Maradona Stefano Accorsi usa un VHS con montati su in fila vari titoli di coda di film più o meno famosi per limonare durissimo Anita Caprioli.

Detto questo, alcune delle canzoni scelte da Sorrentino per i suoi titoli di coda sono chiaramente dei dispositivi adoperati per dare allo spettatore il tempo di capire e possibilmente reinterpretare quello che ha appena visto.

Così in The Young Pope il finale del quarto episodio (confesso: l’ultimo che ho mai visto della serie) è un invito a riconsiderare quello che è successo fin lì: il pezzo cantato da Nada accompagna, sui titoli, il ballo della premier Groenlandese e non si capisce esattamente per quale motivo la donna stia ballando, né per quale ragione quella scena sia stata inserita nella puntata.

Come per spiegare, senza farlo, che quello che sta facendo Lenny Belardo, il Papa giovane, nella serie, non ha senso se non conosciamo il dolore, l’amore che non ha ricevuto o che ha perso. Come per spiegare che poi, alla fine, niente di quello che facciamo noi, fuori dalla televisione, dal cinema, ce l’ha, se non ci innamoriamo.

E allora, intanto, tanto vale ballare.