Nel mediatico frastuono delle presidenziali americane, del Referendum di dicembre, del terzo episodio della nuova stagione di Black Mirror, un angolo di rumore bianco si ritaglia prezioso: in alcune sale selezionate, il 7, 8 e 9 Novembre 2016 si celebra la messa del britpop, echeggiano organi celesti dal cuore popolare di Manchester, riunendo i fedeli all’occasione.

Supersonic, il documentario di Mat Whitecross dedicato alla costantemente auto-definitasi “più grande band di tutti i tempi”, è finalmente al cinema, attesissimo da una platea bipartisan composta tanto da fan accorati, quanto da detrattori convenuti lì per sconfessare il proprio scetticismo, o per confermarlo al termine della visione. Prodotto da entrambi i fratelli Gallagher, il film si concentra su un arco temporale breve, ma messo nitidamente a fuoco, dalla fondazione del gruppo nella Boardwalk (sala prove che avrebbe visto negli anni i cinque comporre i propri maggiori successi, in contrapposizione alla contemporanea ed imperversante cultura del clubbing, rappresentata dall’iconica Haçienda), allo straordinario concerto di Knewborth, live di dimensioni mastodontiche per il quale ben il 4% della complessiva popolazione britannica aveva richiesto i biglietti.

La pellicola è realistica e scevra di romanticherie, dipingendo a tinte lucide il quadro di due personaggi dal carisma ineguagliabile e dal reciproco amore viscerale, che della band si consacrano linfa vitale e veleno lentamente in circolo.

Liam si forgia caratterialmente dell’arroganza propria di un frontman, nato protagonista ed incline agli scandali, ma non per violenza o incapacità di adattarsi al contesto sociale; asseconda un’edonistica filosofia dell’esistenza incurante del giudizio altrui, edificata sulla volontà di rendere i propri giorni pagine di un’opera epica.

Noel, dal canto suo, è più introverso e volontariamente isolato dalle attenzioni, un deus ex machina senza la cui penna alcun testo sarebbe venuto alla luce, avidamente appassionato della propria chitarra e della musica che è in grado di tesserne fuori.

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Gli Oasis ritratti nel film, si presentano come un gruppo di amici sinceramente affamato del mondo, narratori consapevoli di una reazione nucleare che li ha catapultati dalle case popolari al delirio inatteso dei fan giapponesi, alla brutale immensità del panorama americano – causa, per altro, del transitorio allontanamento di Noel dalla band, rifugiatosi da un’ammiratrice a San Francisco dopo il flop della prima esibizione del gruppo a Los Angeles. Fortuitamente incontrano Alan McGee, capo della Creation Records, che ne individua immediatamente il potenziale e propone loro un contratto discografico guidandoli nella creazione di Definetely Maybe, debutto devastante ed arduamente costruito senza mai accontentarsi, registrando più e più volte sino a riconoscere il mix perfetto (curato da Mark Coyle, amico fraterno dei Gallagher e successivamente confermato come tecnico del suono per gli album a venire).

Sarebbe un errore superficiale sostenere che gli Oasis si atteggino a leggende pur essendo prive di merito. Liam e Noel derivano le proprie personalità da un’infanzia complessa, aggravata dalle violenze paterne dalle quali riescono a sfuggire, non senza soffrirne il marchio (il padre, alcolizzato, si sarebbe presentato all’apice del successo pretendendo un contatto con i due sfruttandone la fama, pagato dai tabloid): è qui che pulsa sanguigna la vena del rapporto fra i fratelli, tanto rivali perché agli antipodi, quanto parte l’uno dell’altro in eterno, in un’altalenante miscela pronta ad esplodere non equilibrandone correttamente gli ingredienti. Eccessi, contrasti, amore e velocità avrebbero parallelamente contaminato le sorti degli spettatori di questo ciclico copione, dall’esaurimento nervoso del bassista Guigs all’abbandono del batterista Tony McCarroll, sostituito poi da Alan White.

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Essere un membro degli Oasis è un pacchetto completo da prendere o lasciare, ben oltre gli estremi immaginabili: è la materializzazione del sentirsi supersonic, dell’accantonare opinione pubblica e falsi crismi salvaguardando una punk attitude autentica, che dalla base viene e alla base vuole esser sempre fedele. La chiave di volta della grandiosità è un’umiltà invisibile ai più, mascherata dalle risse e dal gossip che, sul piano della composizione musicale, nulla apportano; gli Oasis devono tutto ai propri ammiratori, nei quali si immedesimano e sempre ringraziano, come bulli col colletto alzato dal cuore spontaneo. Liam, racconta, sul palco di Knewborth non riesce a far altro che guardare la vastità del pubblico che ha dinanzi cristallizzato, particella elementare di un processo universale.

La linea cronologica tracciata dal documentario si conclude al nodo del problema, la difficoltà di fronteggiare un apparato economico insensibile alla naturalezza del gruppo, carro dei vincitori del business musicale sul quale tutti vogliono salire e goderne di una fetta.

“Quando il nostro album Lunedì sarà nei negozi, tutto il mondo saprà chi sono gli Oasis: prima dei teaser online, dello streaming, del drammatico impoverimento degli interessi nell’era digitale, della ricerca di metodi impensabili per sorprendere gli ascoltatori attraendoli, la vera sorpresa si celava nella potenza della musica stessa, nel palco che diviene teatro, e nel farsi prendere a schiaffi da un disco che, pirandellianamente, Così è, se vi pare.