Avevamo davvero bisogno di un’altra band post-punk? La risposta facile sarebbe no, però attenzione.

Qui in Italia degli Shame si è sentito parlare solo nelle ultime settimane, merito dell’album di debutto spinto in particolare da una recensione entusiastica di NME, che già da tempo seguiva la band. In realtà il sound della band non è nuovo alla stampa musicale britannica, né alla scena underground londinese: il quintetto post-punk, nato a Brixton nel 2014 da compagni di scuola costretti a scroccare la sala prove ai Fat White Family, era già da tempo coinvolto in una ricca scena indie rock in continua crescita. Tra esibizioni estreme e tour insieme alle Warpaint, gli Shame firmano con l’etichetta statunitense Dead Oceans (quella di Slowdive, Mitski e Kevin Morby), con la quale nel 2017 pubblicano il primo singolo Visa Vulture, un attacco amaro nei confronti di Theresa May:

Il 12 gennaio esce invece Songs of Praise, un album che non è destinato a cambiare le sorti del post-punk attuale, ma se è vero che la trinità Ought/Protomartyr/Preoccupations è intoccabile, è ancora possibile ammettere un altro candidato alla corte degli anni ’10, perché è anche vero che la Gran Bretagna dovrebbe avere la sua parte. In Songs of Praise è facile rintracciare le influenze: gli Shame sono britannici come gli Sleaford Mods e la presenza di questi ultimi si può sentire nello spoken word di The Lick e Concrete; Dust on Trial ricorda l’aggressività dei Preoccupations mentre spuntano qua e là anche gli Iceage e il post-punk degli anni ’80 (Lampoon). La scrittura sporca e indisciplinata di Charlie Steen deve molto alla penna di Mark E. Smith (The Fall), scomparso proprio qualche giorno fa. La band, infine, gioca anche in casa strizzando l’occhio al Britpop dei Charlatans o degli Stone Roses in One Rizla, Gold Hole e Friction. Ed è forse proprio grazie a questa identità e a quest’accento mostrato con orgoglio che il disco ha trovato riscontri positivi soprattutto in casa.

Gli Shame sono giovanissimi e Songs of Praise non è un disco particolarmente originale, ma – nonostante tutto – è un disco che funziona, perché la voce di Steen non rimane mai uguale a sé stessa, perché la rabbia giovanile della band risulta autentica e ben articolata, e perché praticamente ogni singolo pezzo risulterebbe canticchiabile anche a chi il post-punk non l’ascolta. Songs of Praise è un album che si riascolta con grande piacere.