Con l’uscita del nuovo album 7, i Beach House sono arrivati – appunto – a quota sette album. Sette come i giorni della settimana, come l’anno della crisi e minchiate varie. Ciò che realmente conta è che la longevità del duo di Baltimora inizia ad essere un argomento di discussione da aggiungere a quelli legati allo stile ed alle declinazioni del dream pop, temi già ampiamente affrontati sin dai loro esordi del 2006.

Quando si parla di longevità in ambito musicale è inevitabile procedere a zig zag tra i progetti passati, il che conseguentemente porta ad interrogarsi sull’opportunità e sulla qualità dei nuovi lavori. Se si fa un giro nella discografia di band mediamente o anche insufficientemente longeve il confronto è il tema principale. O potremmo anche dire che il giudizio non è in grado di prescindere dai lavori precedenti, o figurativamente: non vive di vita propria. Del resto, nel caso di specie, già il passaggio da Beach House a Devotion (e soprattutto quello per Sub Pop Records) aveva generato i primi vagiti che si sarebbero, per vero, sopiti col tempo. E spingendoci un po’ più in là, se pensiamo a band come Franz Ferdinand o Editors, il paragone col passato è l’unico dei temi possibili.

I Beach House non sono certamente esclusi da questo gioco molto sadico e, sebbene non mi sia mai capitato di imbattermi in espressioni del tipo “non hanno più niente da dire“, dopo sette album (e la raccolta B-Sides & Rarities) dedicarsi con meticolosità al sadismo è esercizio purificatore, quasi quanto fare le pulizie di casa. E dopo sette album è utile anche cercare di fare un po’ di ordine. Questa purificazione passa certamente dalla ricerca degli elementi chiave e, se ve ne sono, di macro-categorie narrative dalle quali attingere per dare un senso ad una ricostruzione ragionata della loro intera produzione. Una produzione che in questo 2018 trasmette la sensazione di essere ancora fiorente, nonostante le molte primavere e gli altrettanti autunni.

E allora ci siamo chiesti: se dovessimo raccontare i Beach House prendendo una canzone per album; se ci trovassimo sul ponte di un vascello con la sciabola puntata alla schiena, mentre alcuni squali sotto di noi procedono in tondo e potessimo aver fatta salva la vita solo dopo aver fatto una scelta, quali sceglieremmo? 

Apple Orchard (Beach House, 2006)

You know how it is, my friend
In the boxes of those picture frames
Hold your inside ‘cause you’re cold at night
Warm your heart, love, ‘cause you’re by my side

L’esordio dei Beach House è l’invenzione di un genere. Negli anni si è evoluto, ma alcune colonne portanti lo sorreggono ancora come un monumento che racconta secoli di storia. Una di queste colonne è rappresentata dall’abilità nell’assemblare contraddizioni di suoni e di sentimenti; un’abilità che prende forma sin dall’esordio. Apple Orchard è un’istantanea dannunziana: pur essendo un brano essenzialmente bucolico dominato da sonorità esotiche e dal calore di un abbraccio, mantiene fermi i tratti di una lenta ed eterea litania che, come un’onda, spinge sempre più lontano dalle comodità della riva.

Heart Of Chambers (Devotion, 2008)

I’d like to be someone
You could finally learn to
Breathe
At our sides
Let’s take the time
To mend these smiles
To get them
Could make it home
Love is surprises
Live our own lives

Heart Of Chambers è un concentrato di conflitti. Dentro ci troviamo tutto: illusioni, speranze; foto e la solitudine riempita di ricordi. Ma soprattutto è impregnata dell’illusione di quel genere di amore che viene inteso e vissuto come salvezza. Una visione estremamente infantile dell’amore e, per questo, accessibile a tutti. E questa tipologia di sentimento viene cantata e cadenzata in un’alternanza di toni che salgono e scendono come in un ottovolante, la cui lentezza ne acuisce l’impatto. Brano dolorosissimo che lacera la pelle in maniera subdola, così delicatamente che ti accorgi di aver bisogno dei punti di sutura quando ormai il petto è completamente squarciato.

 10 Mile Stereo (Teen Dream, 2010)

It can’t be gone, we’re still right here
It took so long, can’t say we felt it all
Limbs parallel, we stood so long we fell
Love’s like a pantheon, it carries on forever

Molti si chiederanno cosa la rende più speciale dalle altre tracce di quel capolavoro che risponde al nome di Teen Dream, il primo album per Sub Pop. Da un lato sicuramente l’apertura dominata da un riff ipnotico e celestiale che via via esplode letteralmente col passare dei minuti, arricchendosi di musicalità e strumenti. Dal punto di vista delle liriche, poi, il simbolismo che colora tutto il brano ha un impatto devastante. A differenza di Heart Of Chambers, dove l’amore è una sorpresa, qui è un monumento, come il Pantheon e le piramidi. E l’amore è anche esplorato nella sua materialità o fisicità; nel suo esserci soprattutto esteriormente (It can’t be gone/we’re still right here), nel tipico gioco di contrasti tra il sentimento e ciò che c’è là fuori. Il passaggio, poi, del cuore che diventa pietra che puoi gettare per poi ritrovare sempre lì, fa entrare in un loop catartico. Se ti piacciono i viaggi mentali si può mandare in repeat per una giornata intera, come fece Kirsten Dunst durante le riprese di Melancholia.

Myth (Bloom, 2012)

What comes after this
Momentary bliss
The consequence of what you do to me
Help me to name it

La più facile da scegliere per un fattore emotivo (ma anche la più difficile data la complessità di Bloom). Un incipit classico ed il tom che scandisce un viaggio carico di domande. Il nuovo album dei Beach House parte in modo tradizionale, seppur con un master che lo allontana dal lo-fi e che, viceversa avvolge quasi in maniera consolatoria l’ascoltatore. Tutto nella norma, sia nel tema di fondo che nei contenuti con l’ossessione dell’Help me to name it tanto ingombrante che ti viene voglia di entrare nel mp3 a far qualcosa. Tutto ok, ma solo fino al minuto 2.05 quando parte il bridge più sontuoso che gli ultimi 20 anni di musica ricordino. E in quel momento dentro le pupille rivivi un’intera vita in un flash. La genesi, la creazione delle montagne e delle stelle. Fino al big bang. E come il big bang, non si ripete, ma accade una volta sola.

Wildflower (Depression Cherry, 2015)

No better color
Looked everywhere
We’re driving home every night
The shadows stay by your side

Uno dei brani più profondi del repertorio, probabilmente simbolo di tutto Depression Cherry e per questo ripulito dal black humor dell’album. Un mix depressione ed esoterismo ordinato da un’eleganza ed una raffinatezza che raggiungono la vetta più alta. Tuttavia, l’apice è raggiunto anche dal livello di tristezza e di insicurezza che permea tutto il brano. Nemmeno il terzo occhio ed i mondi ultraterreni che ti inventi potranno mai salvarti. Pregevole il tentativo (peraltro, molto sentito in un certo tipo di produzione giovanile statunitense) di raccontare demoni e ombre, non dalla parte del consolatore ma del consolato, come se l’impossibilità di comprendere il dolore altrui venisse, qui e per sempre, data per scientificamente provata.

Elegy To The Void (Thank Your Lucky Stars, 2015)

Deep beneath the waves
Lilies of the day
Garden of remains
Diamond maiden chained

Album che segna un ritorno al passato rispetto a Bloom e che si scontra con Depression Cherry, uscito solo qualche mese prima e che sembra appartenere ad un altro mondo. Meno corposo, ma al tempo stesso più sofisticato. E ad un altro mondo appartiene, soprattutto, Elegy to the Void che rappresenta la summa di questa sfida. La traccia più lunga della loro discografia è un regalo astratto, immaginario ed una cura per il mondo intero, dominata da una chitarra strappata dalle mani di Alan Sorrenti.

Last Ride (7, 2018)

There she goes
Under the sun
Some question there
Roll her eyes
Blonde, your hair
Fake eyelashes

Spesso si è detto di quanto i Beach House siano affini all’estetica di Lynch. Last Ride sintetizza perfettamente queste affinità, estremizzandole in tutti i suoi sette minuti. Sembra perfino di scorgere le cascate di Twin Peaks mentre il coro irrompe sul piano. O più semplicemente è la canzone è dedicata a Nico e alla sua (ultima) tragica pedalata nel caldo torrido ibizenco. E già questo è sufficiente per considerarla come uno dei masterpiece della band.

Se oggi venissero a dirci che Victoria Legrand e Alex Scally hanno deciso di interrompere per sempre la loro carriera, vorremmo che questa fosse la loro ultima canzone.

Qui le sette meraviglie in un’unica playlist: