Durante un processo creativo, a che punto si diventa consapevoli di star componendo probabilmente la miglior opera della propria carriera?

Pusha T è giunto al terzo album da solista, accantonato nel 2010 il duo Clipse (fondato al fianco del fratello Malice), che ne avrebbe reso noto il talento avvicinandolo, fra i tanti, al già membro dei Neptunes Pharrell Williams. Pusha trae il suo nome d’arte da un trascorso burrascoso nello spaccio di stupefacenti, frequentemente posto in dubbio dagli esponenti della scena hip hop e quasi sconfermato dallo stesso Malice – oggi star del Christian rap, assunto lo pseudonimo di No Malice, che avrebbe affermato che a navigare nell’illegalità fossero gli affari del cugino ed i propri e, soltanto in minima parte, quelli del giovane Terrence. Strano a dirsi, considerando che i topic preferiti dall’artista siano il coke rap, i lussi derivanti dalla criminalità e le crescenti crisi d’ansia connesse al condurre un’esistenza sul filo del rasoio.

Thornton è figlio del Bronx ed apostolo di Kanye, a chiudere gli angoli di una santa Trinità: entrato a far parte della scuderia della G.O.O.D. Music, West ne diviene mecenate e promotore, includendone la partecipazione al capolavoro My Beautiful Dark Twisted Fantasy come battesimo e benedizione. Segue un percorso di collaborazione negli anni consolidatosi, giacendo Yeezy dietro la realizzazione del nuovo Daytona come deus ex machina ed ex marketing, avendone curato interamente la produzione e determinato il cambio last minute dell’artwork di copertina (investendo 85k dollari nell’acquisto di una foto ritraente il bagno di Whitney Houston all’atto della sua morte – le ire della famiglia Houston non si sono fatte attendere). Ye fa capolino, persino, prestando la voce in una delle sette tracce di questo EP presentato come album (What Would Meek Do?), con riferimento alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto il rapper Meek Mill un paio di anni fa, risoltasi nella sua scarcerazione.

Daytona è un prodotto fortissimo, inattaccabile, anzitutto, sul fronte dei beat: l’autobiografica If You Know You Know introduce la tracklist con una dancehall graffiata da irruzioni sintetizzate, seguita dalla colossale base di scuola soul / rhythm and blues di The Games We Play, come a varcare la soglia notturna di un bar popolato solo d’avventori dal volto segnato dalle storie della propria vita (non a caso, nel pezzo, Pusha fa riferimento a Raekwon e Ghostface Killah, equiparandosi ai due maestri nello stile onesto e diretto di scrittura, testimonianza di esperienze crude e reali contro la prevalente tendenza moderna di rendere il genere cantato e melodico). Santeria blocca a metà un riff latino di chitarra lasciando emergere un’evocativa voce femminile in spagnolo, su un rullo di tamburi che richiama la sacralità dell’arte divinatoria sud americana.

Di equivalente potenza sono i testi, dimostrando come, pur mantenendo il corpo strutturale pressoché invariato – cocaina, ricchezza, successo e paranoia – esistano variazioni sul tema capaci di rendere il disco una granata pronta ad esplodere, riferimenti irruenti, parole intrise di forza generata dal dono di essere un fenomeno del flow. Un brano in particolare, però, è diventato pomo della discordia tanto da dovervisi dedicare un capitolo a parte: Infrared. Per dovere di cronaca, occorre ricostruire brevemente la cronologia dell’accaduto. Pusha ha, nel tempo, dimostrato poca stima per Lil Wayne e Drake, manifestandolo dichiaratamente a toni accesi. La polemica nei confronti di Drizzy ritorna nel sovracitato pezzo, alludendo al fatto che il rapper canadese si serva di un ghostwriter per la stesura delle proprie liriche (Quentin Miller), incapace di personale autenticità. Precisamente, il paragone fatto è con la vittoria di Trump alla presidenza statunitense, che si è vociferato favorita in segreto dall’azione di hacker russi. Non pago, Thornton rincara la dose accanendosi sulle infinite cause giudiziali intercorse fra Wayne e la label Cash Money, definendo Wizzy come l’ennesimo rapper da record incatenato senza via d’uscita.

La risposta al diss è arrivata da Drake in Duppy Freestyle, senza giri di parole colpendo Push attraverso i suoi benefattori (il manager Steven Victor, lo stesso Kanye), senza i quali non sarebbe – a suo dire – divenuto una star, rimanendo comunque escluso dalla top five degli artisti supportati dalla sua stessa label. Oltre al danno, la beffa di deriderlo per aver gonfiato il proprio passato di strada, più realisticamente concretizzatosi nell’aver smerciato droga a liceali per acquistare un paio di Nike o una Mercedes, oltre che per la sua età (41 anni, contro i 40 di Mr. West). Drizzy non ha paura, si prenderà la donna di Pusha vincendo il rap game e, quanto alle accuse di ghostwriting, sostiene che non sia stato Quentin Miller ad averlo reso ricco, ma che sia lui, anzi, ad avergli salvato la vita sottraendolo ad un impiego al supermercato. Drake presenta il conto; della G.O.O.D. Music non è debitore, semmai è vero il contrario: questo diss non avrebbe avuto altro effetto, se non quello di pompare ulteriormente la notorietà attorno all’album dell’avversario, aiutandone le vendite. Qui, il colpo finale, pubblicando su Instagram l’immagine di una fattura a nome della OVO Sound – etichetta discografica fondata dal rapper di Toronto – esigente un compenso per i servizi prestati per un valore di centomila dollari.

You’re welcome. 🦉

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Da qui, il disastro.

Pusha non attende molto a reagire, e la sua è un’aggressione armata che non lascia superstiti. Scovando una vecchia foto utilizzata per una campagna pubblicitaria di un brand di abbigliamento che vede Drake protagonista, King Push sferra il suo attacco prendendosi gioco del fatto che Aubrey non sia realmente di etnia afroamericana, pur essendosi sempre identificato tale. L’immagine ritrae il rapper con il volto colorato di nero, un trucco razzista che allude alle discriminazioni sofferte dalle popolazioni di colore. La base scelta è, non casualmente, The Story Of O.J. di Jay Z, convertendone il titolo in The Story Of Adidon. La catilinaria comincia, rivolta contro ogni aspetto della vita di Drake, sino ai più intimi: rima sul fatto che sia stato abbandonato dal padre, con il quale solo recentemente ha recuperato i rapporti, irridendone gli abiti pacchiani come fosse un carro da parata; segue sottolineandone l’ipocrisia razziale e caratteriale, padre assente nei confronti di un celato figlio concepito con la ex star del porno Sophie Brussaux, chiamato Adonis – da cui il titolo della traccia -, di cui Drizzy non avrebbe alcuna cura; la potenziale collab dell’artista con il marchio Adidas (già vicino a Kanye e Push), che vedrebbe imminente il lancio di una collezione rinominata proprio AdiDon, in onore del piccolo; ultimo, ma efferatissimo, il riferimento al producer di eterna data, Noah “40” Shebib, malato di sclerosi multipla senza il quale Drake, afferma, non avrebbe alcun successo a cui fare appello.

Il silenzio giace su un deserto in cui rimangono solo le ossa dei cadaveri.

Non è stato proferito altro, se non una dichiarazione minacciosa del mecenate di Drake, J. Prince, tonante di averlo ostacolato dalla pubblicazione di una traccia che avrebbe per sempre potuto porre fine alle carriere di Pusha e Kanye messi insieme. A chiudere i giochi, è stato lo stesso West con un Tweet pubblicato prima che si potesse toccare il fondo, aprendosi in uno slancio oltre mai francescano e pacifista:

Se altri atti della commedia possano ancora recitarsi, questo non è dato a sapersi. Che il fuoco accesosi attorno alla faida sia stato propulsore d’attenzione verso il percorso professionale di Pusha T e la sua ultima fatica, è un fatto certo. Ancor più vero è, tuttavia, che pur senza questo duello testosteronico King Push aveva già maestosamente difeso il suo regno con lo scudo di un successo meritato, confermandosi Daytona lo scettro per governare il rap game.