All’età di 84 anni si è spento Paolo Villaggio. Questa volta sul serio. Quante volte lo abbiamo sentito preannunciare la sua dipartita, seduto al centro di qualche studio televisivo con la gonna lunga, divenuta outfit preferito degli ultimi tempi, il pancione e l’aria stralunata ed anche inacidita di chi sembrava appartenere ad un altro pianeta. E quante altre volte le fake news ce ne hanno dato notizia. È sopravvissuto alle bufale e all’autocommiserazione. Tranne questa volta.

Genovese doc, amico – tra gli altri – di De André (per il quale scrisse Il Fannullone e Carlo Martello Ritorna Dalla Battaglia di Poitiers) e uomo libero al limite dell’anarchico, Paolo Villaggio ha esordito con la tv in bianco e nero ed ha proseguito fino ai giorni nostri senza lasciar mai sbiadire le sue pellicole, comiche sì, ma tragicamente drammatiche, o drammaticamente tragiche. Senza dimenticare i ruoli impegnati di Io Speriamo che Me la Cavo o Il Segreto del Bosco Vecchio, la sua storia cinematografica è caratterizzata dalla comicità all’epoca della commedia italiana.

La figura di Paolo Villaggio è indissolubilmente legata a quella della sua più nota creatura, quel Fantozzi Ragionier Ugo – Matricola 7829/bis, che a metà degli anni settanta, nel pieno dei conflitti sociali, ha saputo dare vita ad un’originale critica in chiave umoristica del mondo del lavoro di natura subordinata e, in particolare, della medio borghesia del nostro Paese. Attraverso la quotidianità di un comunissimo impiegato, ha raccontato la lotta di classe senza esaltare l’antagonismo, ormai travolto dall’aspirazione consumistica, evidenziandone le contraddizioni e quell’aspirazione all’integrazione e al successo individuale, tuttavia mai raggiunti. Probabilmente irraggiungibili in senso verghiano. Ed è qui che alcuni commentatori hanno parlato di disgregazione storica del proletariato ed addomesticamento. (Meno comica tra le comiche, ma ugualmente tragica, la scena con il compagno Folagra è, in questo senso, emblematica: Fantozzi, proverà anche a reagire al potere dopo i colloqui e le letture marxiste, ma finirà per assecondare nuovamente il megapresidente).

Come spiegato in dottrina, si è spinto talmente al largo con la propria opera che ha generato un archetipo, un topos letterario: la figura dell’antieroe mediocre che nel contesto italiano è senza dubbio tra le più efficaci, specie per i modi in cui si è evoluta rispetto alla tradizione. A differenza di alcune figure letterarie tra le più note (vedi ‘Ntoni ne I Malavoglia) la condizione individuale non deriva dall’irrimediabile contesto sociale in cui si è nati/cresciuti, ma è da addebitare a quello lavorativo.

Il primo approccio con la saga di Fantozzi è certamente quello esilarante. Indimenticabili alcune scene e quelle che sono delle vere e proprie invenzioni portate sullo schermo dall’artista genovese, grazie anche alla genialità di Luciano Salce: le storpiature grammaticali di chi vorrebbe essere fine del vadi, venghi; il frittatone di cipolle col rutto libero, l’autobus al volo, la cagata pazzesca, l’accento svedese, in sella alla bersagliera, la crocifissione in sala mensa, il nuvolone dell’impiegato, le visioni mistiche, Non dà la mano, o, ancora, la mossa di sedersi senza sedia sotto il culo; tu mancia, il tordo intero, taglio in nome di Dio e così per tutte le battute di ogni suo film.

Ma Fantozzi è sostanzialmente un dramma da ovunque lo si guardi. Basti semplicemente pensare al suo nome (peraltro realmente appartenuto ad un collega di Paolo Villaggio); così anonimo, così facile da memorizzare e perennemente storpiato: Pupazzi, Bambocci, Fantocci…anche se nei momenti peggiori il suo cognome diventa sinonimo di “merdaccia“.

Il prototipo del tapino, ovvero la quintessenza della nullità

Così definito dallo stesso Villaggio, rappresenta la tragedia esistenziale dell’italiano medio. L’inetto consapevole del proprio fallimento ed incapace a vivere, ma che cerca comunque di ritagliarsi attimi di felicità borghese, attraverso la ricerca di un riscatto sociale secondo gli standards e le aspirazioni della classe dirigente dell’epoca. Memorabili le elucubrazioni mentali sulla surreale vita dei manager: dall’acquario dei dipendenti alla poltrona in pelle umana. E ugualmente memorabili sono anche l’ignoranza e le deficienze culturali sue e della classe che rappresenta. In quasi tutti i film viene infatti ripetuta la scena delle domande basilari di cultura generale alle quali non riesce a rispondere, divenendo lui (ovviamente) il capro espiatorio di una generazione di ignoranti e farisei che ride e che fa bella figura alle sue spalle.

Ma anche a lui, nonostante tutto, vengono riconosciuti i diritti minimi, come le ferie. Solo che quando va in vacanza finisce in discarica o al campeggio con i tedeschi, mentre goffamente cerca di mescolarsi ai giovani campeggiatori che lo osservano come una bestia da circo.

In ufficio sgobba per tutti agevolando l’assenteismo ed anticipa di circa 20 anni il tema del mobbing, rappresentando in modo magistrale il servilismo del subordinato rispetto al potere, ma spesso anche rispetto al collega. Viene, infatti, escluso praticamente da tutti in sala mensa, eccetto dalla combriccola di residuati bellici vicini al pensionamento come il Fonelli e viene murato vivo in azienda per la quantità di straordinari svolti. O, ancora, (sebbene questo sarà un destino comune a tutti in azienda) è costretto a saltare la partita della nazionale per recarsi al cineforum aziendale, in un altro leggendario passaggio che scavalca le generazioni come i giganti passeggiano sulle montagne.

Ha un amico che diviene anche compare di sventura: Filini dell’Ufficio Sinistri, maniaco degli eventi aziendali che lo coinvolge in qualsiasi iniziativa della Megaditta agli albori di quello che oggi viene definito team building e che rappresentava, viceversa, solo una delle mille facce dell’aziendalismo o, per certi versi, del socialismo utopico. Anch’esse sono diventate simboli indelebili del cinema: il veglione di capodanno nel fatiscente locale caldaia, la battuta di caccia, la partita di tennis all’alba ed il calcetto scapoli & ammogliati. La settimana bianca col prof. Birkenmeier e quell’ardito tentativo di sfuggire alla Coppa Cobram facendo l’accento svedese. E anche quando il destino gli dà la possibilità di riscattarsi è costretto a viaggiare come un clandestino sulle ruote del treno e a fare il mozzo in barca. E alla fine, in una delle rare occasioni nelle quali la sua condizione sembra elevarsi, tra tutti i presenti è proprio lui lo sfigato di turno che cade nel pentolone di polenta.

Ed è un dramma anche negli aspetti familiari. Anzi, probabilmente è proprio nella narrazione del contesto familiare ed intimo che fuoriesce la potenza drammatica di questo personaggio.  Fantozzi è (in)felicemente sposato con la Pina che lo stima ma che non lo ama, e padre della babbbuina-bambina Mariangela, creatura che rappresenta l’apice della tristezza insita nella vita del ragioniere. Attraverso la sua presenza la nostra parte più becera ride mentre quella più umana riesce a commuoversi. Gli auguri di Natale nell’olimpo del 18esimo piano della ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica ne rappresentano l’esempio principe. In una scena del genere si ride o si prova empatia? Quante volte ci si è posti una simile domanda, sghignazzando sulle disgrazie altrui e sentendosi – nel contempo – degli essere spregevoli.

Anche il buon padre di famiglia ha dei vizi. Infatti, è segretamente invaghito dalla sua collega, quella sig.na Silvani (“ex infelice grande amore di Fantozzi“), già promessa al suo antagonista Calboni (massimo esempio di mediocrità vincente e servilismo utalitaristico). Con lei – presente anche in Fracchia – vivrà alcuni dei momenti più importanti della saga: il ristorante giapponese, la colazione da Gigi il Troione con rissa memorabile, Courmayer e Capri, in tutti quei patetici tentativi di abbordaggio puntualmente naufragati con abbondanti figure di merda che gli ricordano che ad un passo dalla vittoria, c’è sempre un gradino scivoloso. Ma c’è anche una moglie devota che ti aspetta a casa, con letti separati e bigodini in testa.

La sintesi dell’universo fantozziano non si esaurisce certamente qui. Per raccontare i particolari, le citazioni; l’approfondimento sulla natura di ogni singola battuta di sceneggiature leggendarie ci troveremmo davanti ad una vera e propria cosmogonia di una comicità unica che per compiutezza sfugge a chi scrive semplicemente per devozione.

Da oggi Paolo Villaggio ed i suoi personaggi rimarranno nei racconti tramandati delle battute mai anacronistiche, alcune di queste entrate nelle conversazioni quotidiane degli italiani di ogni età. Nei vecchi vhs sgranati ai tempi di Tele+ in chiaro o nelle “serate Fantozzi” nelle calde serate estive. Leggende di un’Italia post ricostruzione raccontata attraverso le aspirazioni dei suoi protagonisti più anonimi, interpretati dai caratteristi migliori del nostro cinema.

Rimane una domanda: Come raccontare Paolo Villaggio a chi non lo conosce? Ognuno può scegliere la sua battuta. Io ne prendo una tratta da Il Secondo Tragico Fantozzi che descrive, nel miglior modo possibile il perdente numero 1 della storia del nostro cinema.

Io non mi permetterei mai di giocare, si figuri se mi permetterei di vincere.