Mi si nota di più se faccio le classifiche di fine anno o se critico chi fa le classifiche di fine anno?

Dicembre: tempo di bilanci, di bacheche intasate da TOP 10/25/50 e di discussioni eterne sull’inutilità delle classifiche che, tempo tre o quattro commenti, si trasformano in discussioni ancora più eterne sull’inutilità dei critici musicali – meglio ancora se i critici in questione scrivono per una webzine. Ogni anno la stessa storia: le classifiche di fine anno aizzano il commentatore seriale come nemmeno un post sul ritorno di Contessa.

C’è l’indignato che “È uno schifo, *nome di una rivista a caso* al 20 giugno già faceva uscire la classifica del 2017”. C’è il titubante che “Ne riparliamo tra vent’anni anni, allora sì che sapremo quali sono stati i dischi migliori”. C’è il democristiano che “nel mondo siamo 7 miliardi, non potete aver ascoltato tutti i dischi usciti quest’anno”.

E, per carità, hanno tutti ragione.

Due settimane fa All Songs Considered – programma radio in onda su NPR, qui trovate il podcast – Robert Hilton e Bob Boilen si sono posti la domandona per eccellenza: “What makes a great album last?”. Ne è seguita una discussione di mezz’ora che non ha – ovviamente – portato a conclusioni, ma ha messo in chiaro tre cose: un buon disco può diventare un disco dell’anno se ha una sua specificità rispetto al panorama musicale in cui sguazza, se suona fresco anche al duecentesimo ascolto e – attenzione – if it fits into your life at that time.

I dischi vanno contestualizzati, e non solo rispetto alla scena musicale che li circonda, ma anche rispetto a dove ti trovavi tu in quel momento, nella tua vita. E ovviamente c’è una risposta diversa per ogni persona. 

Considerando che a Deer Waves al primo posto ci abbiamo messo Sufjan Stevens nel 2015 e Bon Iver nel 2016, probabilmente in redazione – e nelle nostre vite – piangiamo parecchio. In ogni caso qui sta il punto, che dovrebbe essere scontato ma che non fa male ribadire: la classifica di fine anno non serve (solo) a dimostrare chi ce l’ha più grosso, è anche e soprattutto un affare emotivo. Sono sempre gli stessi nomi e quelle due o tre “botte di fighettismo per far scena”, come twittava qualche anno fa il direttore di VH1 (al secolo MTV) Luca de Gennaro? Forse. O forse avere una fiducia esagerata nei propri gusti personali non è cosa semplice e quello che si fa davvero è provare a mediare tra le proprie preferenze e i dischi universalmente critical acclaimed – che è cosa ben diversa dal fare copia-incolla della sezione “8.0+ reviews” di Pitchfork.

Noi lo sappiamo che oggi siamo tutti critici musicali, che non possiamo fisicamente aver digerito e assimilato tutta la musica uscita quest’anno, che le classifiche non servono più perché viviamo nel tempo di YouTube e della funzione “artisti simili” di Spotify.

Anche voi però lo sapete che la critica musicale non se la passa bene, quindi lasciateci almeno le nostre classifiche.