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Lazarus (David Bowie)

(In via di premessa si può notare come quello che d’ora in poi chiamerò “sonetto” è organizzato in quartine (4), in perfetto stile trecentesco e si conclude con una quinta quartina che chiamerò ritornello).

Partiamo dal titolo.

Lazzaro, fratello di Maria di Betania è noto ai più per essere stato riportato in vita da Gesù, dopo essere morto a causa di una grave malattia. Ma è anche interessante notare come il nome, che deriva dalla forma latinizzata di Lazarus, a sua volta trae origine dal nome ebraico Eleazar (‘El’azar) che significa “colui che è assistito da Dio” o “colui che Dio ha aiutato“.

“Look up here, I’m in heaven

“I’ve got scars that can’t be seen
 I’ve got drama, can’t be stolen”

Nel primo rigo della prima quartina David Bowie entra sfondando la porta, descrivendoci subito la sua condizione. “Sono in paradiso, quindi morto”. La formula, tuttavia, rimane enigmatica in quanto, nonostante la morte, egli riesce ugualmente a pensare e chiede quasi di essere guardato. In questo senso sembrerebbe un momento di passaggio – come fu quello di Lazzaro  – e come (col senno di poi) capiamo essere anche quello di Bowie stesso; malato terminale ma ancora vivo. E difatti, se collegato alla seconda parte, potrebbe indicare il momento del passaggio verso la rinascita (da qui, infatti, le cicatrici – scars). Sono morto, ma percepisco il paradiso perché riacquisto sensibilità e, quindi, la consapevolezza.

Si passa così alla seconda parte della prima quartina, forse la più drammatica di tutto il testo. L’autore dopo averci introdotto alla sua condizione di (semi)morto ci spiega la sue sensazioni:

Ho dei segni che non possono essere visti“. E non possono essere visti perché i dolori dell’anima e le paure più primitive che albergano in ognuno di noi non si possono spiegare, ma non ci possono essere nemmeno portate via. “Vivo un dramma che non mi può essere portato via“. Bowie da personaggio pubblico diventa essere umano e in questa condizione, interiormente è solo. (Ma si noti, inoltre, l’uso sapiente di drama, attraverso il quale David Bowie sembra essere consapevole che questa sua condizione è non solo drammatica, ma è teatralizzata, come uno spettacolo).

“Everybody knows me now” 

Chiude la quartina quella che è la conferma della sua notorietà, ma non solo. Infatti non si riferisce soltanto al modo in cui lui è conosciuto dal suo pubblico, ma anche al fatto che da malato molte persone lo stanno conoscendo più intimamente, anche dal punto di vista medico/clinico. Era malato da tempo, di tumore; e questo vuol dire un logorante avanti e indietro dalla cliniche, analisi, test, chemio; la vergogna di essere nudo. Viene descritta in un semplicissimo verso la parte più misera dell’esistenza umana, quella che spoglia ognuno della propria dignità. E questo suo porsi a chiusura della quartina conferma la sua connessione semantica con la sofferenza e la vergogna e con la successiva sensazione di aver, ormai, perso tutto.

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“Look up here, man, I’m in danger
I’ve got nothing left to lose”

I’m so high it makes my brain whirl
Dropped my cell phone down below”

La seconda quartina continua sulla falsariga della prima, alternando le sue sensazioni con la descrizione del mondo esterno. Lazzaro è in pericolo; David Bowie è in pericolo. Entrambi, tuttavia, conoscono il destino che li attende. Non c’è più nulla da perdere, poiché tutto è segnato da un inevitabile addio.

Nella seconda parte della quartina viene nuovamente fatto un riferimento alla vita da malato. Guardami, sono in pericolo. Se la condizione fisica di Bowie era davvero così grave, allora questo ha comportato sicuramente un pesante e massiccio utilizzo farmaci. (GuardamiSono (in pericolo e) strafatto. (In alcuni casi, inoltre, la prescrizione di farmaci antidepressivi è la regola). Ovviamente, questa espressione rimanda anche alla quantità di droga assunta nell’arco di questi anni, che gli fanno girare completamente il cervello e che, ormai, lo confondono. Cade pure un cellulare, simbolo e feticcio insostituibile dell’era moderna, ma la situazione è così disperata che viene lasciato a terra.

“Ain’t that just like me?”

Ecco, sono inutile come un telefono sotto un letto di ospedale. “Mi somiglia no?”. L’autore torna nuovamente al concreto e si sente inutile come uno strumento vecchio, passato. Caduto ed irraggiungibile per la condizione in cui Bowie si trova.

“By the time I got to New York

I was living like a king
Then I used up all my money
I was looking for your ass”

Nella terza quartina troviamo l’esplicito riferimento ad un segmento della sua vita. Si parla di New York, del successo, dei soldi e del sesso. Sregolatezza ed eccessi che hanno il compito di far capire al lettore quanto può essere intensa la vita terrena. E quando può far godere. Tuttavia, l’avidità e la ricerca spasmodica del piacere sono catene che rendono prigionieri e che contribuiscono al declino. Mentre lui, a sua volta, si sente prigioniero della malattia, o forse della vita stessa. Bowie qui rappresenterebbe in generale la razza umana, con particolare attenzione alle proprie pulsioni, e non è più l’unico protagonista del drama. Anzi, come ogni persona, ricorda il passato sul proprio letto di morte con una buona dose di malinconia. O secondo una lettura più estrema e sicuramente minoritaria, potrebbe somigliare ad una sorta di pentimento, subito però ringoiato. (New York, peraltro, sarà la città dove – fonte NME – verrà cremato.)

This way or no way

Per questa via o per nessuna“. (più comunemente “In ogni caso”). Da vivo o da Morto. Da Bowie o da Lazzaro. E come un dilemma, che gli attorciglia la gola e la cui soluzione ormai è inevitabile, questo verso si pone a metà del sonetto e a metà dei sei minuti di canzone. Prende sempre più corpo nel poeta la consapevolezza del proprio destino; s’alza il tono e la sofferenza è palese. Ma egli, ormai quasi reincarnato nelle forme primordiali della natura, prima ancora della Natura stessa, si sente al sicuro. (E nello stesso tempo ci prepara per l’altra parte preponderante di tutta Lazarus).

You know, I’ll be free
Just like that bluebird
Now ain’t that just like me?

“Tu lo sai”.”Voi sapete“. Chiunque mi conosce sa che io sarò per sempre libero. E con una semplicità da fanciullo David Bowie ci dona le sue speranze per questo suo momento di passaggio: libertà. Un senso di libertà che, in ogni caso, ha contraddistinto anche la sua intera esistenza e così come la canzone si apre in una magistrale sequenza strumentale, assistiamo ad un’alternanza di piani terreni ed ultraterreni, che porta l’ascoltatore in uno stato onirico ed ugualmente drammatico. Sarebbe ridondante riportare qui le rivoluzionarie visioni artistiche che David Bowie ha presentato al mondo, ergendosi a re (king) tra gli avanguardisti in ambito musicale, ma probabilmente è proprio questo il momento nel quale l’artista e il visionario, morendo, si trasformano in leggenda. Una leggenda non più malata, ma libera di una libertà allo stato più puro.

Altro elemento fondamentale della canzone riguarda il bluebird.

Si tratta un uccellino, spesso confuso con le rondini, che ha assunto nel corso degli anni anche connotazioni mitologiche e che ha infoltito la copiosa letteratura marinaresca. La Sialia (questa la traduzione), rappresenterebbe la felicità eterna, ma anche la primavera. In questo senso, la similitudine si rivela chiarissima al lettore: la morte porterà la più totale libertà, ma come con Lazzaro, questa libertà coincide anche con una forma di resurrezione o di un eterno ritorno nietzschiano; o ancora la trasformazione in mito. E infatti, questa prima interpretazione si scontra con la seconda traduzione etimologica del vocabolo. La primavera (o per la tradizione dei nativi americani il sole nascente) rappresenta la rinascita. Così come sto morendo, sono pronto a rinascere e a sentirmi finalmente libero. Qualsiasi forma assumerò da morto io sarò libero ed il concetto di libertà – così concepito da Bowie – sembra poter oscillare tra la vita e la morte, senza rimanerne intaccato in alcun modo.

Oh I’ll be free
Just like that bluebird
Oh I’ll be free
Ain’t that just like me?

E a questo punto David Bowie, ormai stremato, sembra quasi impaziente di morire e di spiccare il volo. L’intensità dell’ultimo respiro si placa quasi all’improvviso, dopo aver recitato questi ultimi versi e sembra iniziare la sua ultima lunga planata attraverso la sua carriera: gli inizi da dandy, Ziggy, il Duca Bianco, Berlino, gli anni 80, l’autunno, la morte. Tutto scorre nell’ultimo minuto di canzone, che si affievolisce ed il cui ritmo si fa meno incalzante come un respiro che si sta lentamente frammentando.

Viene così lasciato del tempo per pensare a tutte le più intime debolezze, fino a spingere l’ascoltatore sull’orlo del baratro.

A tutto questo discorso, forse sconclusionato, si aggiungano la potenza visiva del video e la cruda – a tratti terrificante – parte strumentale, che alterna strascichi di fiati ad improvvisi distorsioni new wave, (già) simbolo di una malattia che ferisce lentamente e mortalmente.