Una settimana fa riflettevo sulla rappresentazione della contemporaneità sociopolitica operata da alcuni album di musica elettronica. In un’epoca in cui si parla di cybercapitalismo, information overload, accelerazionismo, automazione, postumanesimo e quant’altro, l’arte più ovviamente contemporanea che possa venire in mente è quella “delle macchine”, quella che rifugge gli schemi (musicali e non) reiterati per decenni. Stiamo però consapevolmente parlando di una nicchia. Guardando le statistiche e i record di Spotify, infatti, ci accorgiamo che l’arte più fruita oggi è quella assimilabile al “nuovo” rap, quello che canta di successo insoddisfacente, cuori spezzati, bipolarismi, alterazione sensoriale come unica via di scampo dal reale.

È un mondo abitato da idoli vuoti, da immagini riflesse in una pozzanghera psicotropamente deformata di codeina e vittimismo, da narcisi sessuomani che si lasciano vivere. La conseguenza finale è che le nuove generazioni si identificano nello specchio dello specchio di qualcosa che già in partenza non è, svuotandosi ad un livello ancora superiore.

In questo panorama vi sarete già accorti del grande assente: il rock. La musica delle chitarre, infatti, pare essersi infossata in quella condizione di cantrice dei sentimenti universali e sempiterni, distaccati dall’oggi, e divenuta sempre più accogliente bambagia di emo-feels e meme post-ironici (rifugi che ammetto di consumare ampiamente e senza vergogna). L’alternativa, anche qui, sono i grandi palchi e i rotocalchi ricolmi di una egomania troppo intenta a imbrillantinarsi il ciuffo per notare il presente, quella cancrena da stadio tutta singalong e soldout, fase terminale di un panem et circenses fine a se stesso.

In definitiva, il mercato odierno sembra attratto o dall’autocommiserazione dei simili (il caro, vecchio, “mal comune mezzo gaudio”), o da un irraggiungibile status quo mantenuto tiepido dal capitalismo egoista (il tuo idolo ce l’ha fatta, se ti impegni hai le sue stesse possibilità di riuscita).

Poi, però, arrivano gli IDLES.

Mettiamolo subito in chiaro: gli IDLES fanno punk; che gli si metta post prima o hardcore dopo, sempre punk rimane. Nell’epoca cibernetica di cui sopra, gli IDLES pubblicano il loro secondo disco, Joy as an Act of Resistance, e giocano in contropiede facendosi portabandiera del caos primordiale, sguaiato e animalesco. C’è l’urgenza in quelle distorsioni ruggenti, la carica della riscossa in quelle percussioni pestate, la voglia di far casino su quei ritornelli melodici. Fin qui, però, nulla di nuovo; dove sta la novità?

I cinque di Bristol parlano la lingua del popolo ma rifuggono i populismi, smuovono le coscienze nei pub ma senza scadere nelle chiacchiere da bar: urla, botte da orbi, vetrine rotte, diti medi (o meglio, V con indice e medio) alzati, colletti blu incazzati e birre che volano. Combinando la retromania tanto cara a Reynolds, con conseguente appeal sulla vecchia guardia, a un utilizzo postmoderno dei social che fa breccia nei più giovani, la band ha il dono di essere trasversale, universale, eppure al passo coi -tremendi- tempi che corrono. C’è tutta la voglia di rivalsa della working class nei versi di Joe Talbot, il frontman, la volontà di far trasparire il disagio quotidiano vissuto nelle strade più indigenti del Regno Unito. Su ritmi serratissimi si fanno largo tematiche più che attuali, affrontate in maniera critica eppur semplice, talvolta ironica, ma sempre con cognizione di causa, hic et nunc: brexit, maschilismo, omofobia, immigrazione, finanza, politica del terrore, disuguaglianze sociali; c’è anche spazio per un fatto intimo, ossia la dedica di Talbot alla figlia nata morta qualche mese fa. La potenza d’impatto degli IDLES è devastante e si è tradotta in un successo raro se messo a confronto con quello dei colleghi “underground”, pur bravi, degli ultimi anni. Il loro naturale esimersi da patinate strategie di marketing, poi, ha permesso loro di raggiungere un bacino d’utenza totalizzante, arrivando a qualsiasi ascoltatore, a qualsiasi critico, a qualsiasi pubblico, attuando una piccola rivoluzione fatta di inaspettati live alla BBC e date soldout.

Nelle chitarre e nei testi della band compare finalmente un soggetto che da troppo tempo era stato lasciato in disparte, soprattutto nel rock: l’altro. L’altro è la società, quindi sì il nemico, ma anche e soprattutto chi ascolta, chi condivide il credo, il posto in barricata e la battaglia. In Joy as an Act of Resistance convivono rabbia e sensibilizzazione, comunione d’intenti. La gioia nella resistenza, appunto, sta tutta nella consapevolezza di non esser soli e di poter ancora cambiare qualcosa, uniti. La musica degli IDLES ha il grande merito di riportare il rock ad oggi, è musica politica e serve a risvegliare le coscienze.

Fate un atto di resistenza: andate a sentirli dal vivo, andate a pogare e a perdere la voce, tutti insieme.
E che qualcuno scagli la prima pietra.