Noi siamo i Fine Before You Came e veniamo da Milano

Pronunciando questa frase, uno dei gruppi più determinanti della storia musicale italiana degli ultimi vent’anni si introduce ai suoi live davanti a un pubblico incessantemente numeroso a ogni data, che si tratti del tour in acustico intrapreso tre anni fa o di quello che ha accompagnato l’uscita dell’ultimo album, Il numero sette, nel 2017.

Il luogo prescelto per incontrarsi è spesso quella Milano in cui la band è stata fondata nel 1999, a diventare influenza principale del genere emo-core e post rock nazionale: la formazione, negli anni, è rimasta solida e fedele a quella originale. I testi, a cura del frontman Jacopo Lietti (fondatore dell’etichetta indipendente e studio di grafica Legno), hanno espresso il sentimento e la poeticità del malessere di una generazione che li inneggia a pugno chiuso – nel 2011, la rivista Il Mucchio Selvaggio ha inserito Sfortuna, primo disco cantato in italiano della band, tra i 50 essenziali del rock nostrano degli anni 2001-2010.

Ogni volta che ci si riunisce la consapevolezza è la stessa, prendendo parte ad un rito ormai consacrato come tale. Un concerto dei FBYC è una terapia di gruppo, un canale di sfogo emotivo dalla riuscita sempre positiva: ci si abbraccia, si percepiscono le parole arrivare al fondo dello stomaco, per un’ora e mezza catarticamente ci si immerge in un flusso di persone e di empatia, ché tutti diventano una voce unica. I presenti spaziano in una fascia d’età che dagli appena vent’anni cresce sino ai quaranta, testimonianza di un passaggio di testimone sonoro qualitativamente ben eseguito. Non ci sono intervalli fra i brani, di solito, se non per brevissime presentazioni che lasciano trapelare il legame esistente fra il gruppo e la città in cui ha esordito, o quella in cui portano viscere e cuore.

Il live è una scarica potentissima di energia, acusticamente impeccabile, durante il quale i cinque fanno da padroni dominando completamente la scena. Si muovono complici e coinvolti della stessa loro esibizione, occhi chiusi intonando i ritornelli, Jacopo a contorcersi e dimenarsi – come di consueto -, arrampicandosi sulle strutture metalliche del palco ad ogni scoppio di batteria e chitarra. I Fine Before You Came fanno quello che fanno da due decenni e non hanno mai calato di irruenza, unicità, confermandosi un gruppo intellettualmente superiore nelle modalità comunicative e visceralmente autentico. Sono trascorsi anni, ma si osservano ancora gli stessi ragazzi che hanno mosso i primi passi insieme volendo emulare gli idoli Eversor o Get Up Kids, che ti scomodano lividi e ferite accarezzandoli per ricordarne la provenienza. Ultimo giorno, Sequel, Trabocchetti, Nonsenso comune sono tracce estratte dall’ultimo lavoro e si alternano ai classici Magone, Sasso e Dublino, su cui la folla impazzisce e celebra l’istante più alto della funzione, il rito della comunione.

La forza ruggisce, ma in modo più intimo; non distrugge la casa, ma ne prende a pugni le pareti. E che si tratti di una liturgia consolatoria e costruttrice per tutti lo prova il discorso con cui Jacopo congeda i sodali dinanzi ai loro fan: hanno cominciato a suonare non guadagnandoci un soldo e non immaginando che sarebbe divenuto il loro vero lavoro. Ciò nonostante, puntare dritti all’animo si è evoluto in un elemento imprescindibile della loro esistenza, escluso il quale non riuscirebbero a muovere oltre.

Mentre Jacopo parla, i quattro amici di una vita alle sue spalle posano gli strumenti e si abbracciano, stanchi e commossi. Dinanzi all’umiltà dei più grandi, come quella dei Fine Before You Came, c’è solo da inchinarsi.