Una cosa buona che sta portando il poptimism in questo mondo megaibridato è il ritorno a cavallo del jazz tra i generi fagocitati e riproposti dagli artisti contemporanei.

Nonostante il jazz comunque non sia stato mai davvero demonizzato dalla musica popular solitamente se ne restava nel suo cantuccio, a fare le sue cose, con il suo seguito fedele di fan dalla sensibilità musicale altra. Ecco, ora è molto più semplice sentire del jazz in artisti più comuni, senza andarsi a ricercare il quartetto nel locale fumoso; basta aver ascoltato un disco di Four Tet per aver sentito dei campioni di pezzi jazz, per fare l’esempio più scemo.

Così, abbiamo deciso di raccogliere alcuni album usciti negli ultimi anni che dal jazz hanno mutuato vari elementi, in una sorta di brevissimo compendio di un neo jazz che magari già avete ascoltato, che possono fungere da ponte verso il jazz puro o che potete citare all’aperitivo per fare bella figura.

Il punto di connessione comune tra tutti i dischi citati è la concezione del jazz come punto di partenza, di saccheggio, di ispirazione; come base – insieme agli altri generi che possono essere il rock, il blues, l’hip hop e l’elettronica, sia chiaro –, oltrepassando un’altra frontiera dell’ibridazione musicale con il genere idealmente più elitario di tutti, ma senza prendersi troppo sul serio e soprattutto senza mettere in mezzo Norah Jones.

BADBADNOTGOOD – IV

Dalle balladone neo soul al jazz all’hip hop strumentale, la band di Toronto alla quarta prova non sbaglia il colpo e getta altro cemento su quel ponte tra la tradizione jazzistica (sono musicisti freschi di conservatorio) e le tendenze contemporanee, ambasciatore di una certo suono ma rimodernizzato per orecchie più fresche. Dal vivo poi sono fantastici, coinvolgenti e umili.

Flying Lotus – Cosmogramma

Del jazz Flying Lotus ha assimilato (a parte i geni, nipotino di Alice Coltrane, mica cazzi) quella forza assolutamente primigenia che si sente nei sassofoni del Coleman degli anni d’oro, l’ha imbrigliata e l’ha messa al suo servizio pescando dalla sua cultura musicale indomita; aggiungi l’attitudine a circondarsi da musicisti pazzeschi come Thundercat, Kamasi Washington, Kendrick Lamar, Daedalus, per creare una sorta di movimento, di ambiente, di nucleo pulsante vitalità musicale e collaborazioni interessanti e hai un album magmatico come Cosmogramma, imprescindibile nella musica degli ultimi anni.

Thundercat – Drunk

Drunk è il disco che mi ha ispirato a scrivere quest’articolo. 23 pezzi di pochi minuti ciascuno, musica serratissima, featuring di cristo (Kendrick Lamar, Wiz Khalifa, Pharrell) mentre il basso elettrico del bandleader Thundercat cavalca (in piena scuola Jaco Pastorius) in mezzo a tempi non complessi e giri armonici lontani dalle follie più free. Poco importa se quello che sentiamo non sia propriamente jazz, quanto uno strano oggetto-jam costola della Brainfeeder tutta; ha anche lui quell’attitudine ibrida che tiene l’orecchio attento e il tiro bello alto.

Yussef Kamaal – Black Focus

Quello di Yussef Kamaal è un disco avvolgente del duo di Yussef Dayes che mulina alla batteria e Kamaal Williams che suona tutto il resto, con parti musicali armoniche e melodiche che si compenetrano come se fosse la cosa più naturale del mondo. Praticamente una jam session di acid jazz, un flusso continuo di improvvisazioni partito da accordi di sintetizzatore, che vortica per 40 minuti e quando finisce vuoi rimettere subito da capo.

Dave Douglas – High Risk

Il jazz contemporaneo non può prescindere dall’elettronica, vuoi nell’effettistica elaborata, vuoi nei looper serrati, vuoi nell’eredità sintetica di uno come Herbie Hancock o dell’ultimo periodo di Davis. Succede spesso che però per i musicisti jazz che girano nei circoli e nei festival jazz l’elettronica sia solo un contorno, un’inflessione espressiva, una colorazione di un suono già impostato. È per questo che il lavoro di Dave Douglas, musicista jazz vero e proprio e due volte vincitore di Grammy, con Shigeto all’elettronica è così importante: High Risk è un confronto battagliero ma leale di Douglas con i suoi musicisti, con la sua tromba non filtrata e diretta, al di fuori delle ibridazioni standard tra il jazz e l’elettronica, dagli ambienti acidi ma melodici, per creare qualcosa di nuovo. Ma non date retta a me, ascoltate la parte ritmica senza senso della title track.

Fire! Orchestra – Exit

Avete presente le big band jazz orchestrali degli anni 30’? Ecco, l’evoluzione non è stata diretta, ma questa è la loro trasposizione nella contemporaneità. In questo disco del 2013 l’urgenza free jazz del collettivo svedese guidato da Mats Gustafsson fa paura tra cori, strumenti acustici ed elettrici; magari non mettetelo davvero ad una festa altrimenti la gente inizierà ad andare via, ma magari restano i migliori.

Kamasi Washington – The Epic

Ecco, anche l’enorme epica di Kamasi Washington è un disco che uno potrebbe spararsi per fare in tre ore un percorso un po’ altalenante nella storia del jazz e della musica nera americana. Gli interpreti sono d’eccellenza, il disco non eccelle in niente ma è una bella vetrina per un certo tipo di  jazz e un cancello elegante verso le forme più classiche e meno esoteriche.

GoGo Penguin – v2.0

Dalla parte un po’ più pop del jazz ci sono i GoGo Penguin, che creano bei dischi strumentali dalla parte ritmica serratissima e acustica anche se ispirata alle drum machine, e dalle melodie ammiccanti, come dei figli spuri di un ménage à trois (abbastanza dolce, poco porco) tra Squarepusher, Debussy e Mehldau.

Snarky Puppy – Culcha Vulcha

Se una street band jazz registrasse un disco tentando di mantenere l’enfasi del live uscirebbe una cosa molto simile ai dischi degli Snarky Puppy: non è niente di trascendentale, ma ha quell’energia primigenia del jazz come momento collettivo e di improvvisazione che non si può tralasciare. Certo, dopo un po’ viene a noia, ma dal vivo dev’essere tutta un’altra storia.