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La quarta edizione del Wired Next Fest si apre con Matteo Renzi. Faccio colazione e il suo faccione è già in tv, in diretta, a pontificare sull’attualità, sull’Italia, sull’Europa. Con la lucidità che ricevo dal caffè realizzo che non poteva essere altrimenti, che è un comunicatore, che non voleva mancare nella sua città ecc., dunque mi metto alla guida verso Firenze.

Il programma del WNF 2016, completamente gratuito, propone diversi incontri interessanti, dal direttore generale della RAI Antonio Campo Dall’Orto al pluripremiato chef Massimo Bottura, passando per il regista Gabriele Mainetti fino al nostro amico Pierluigi Pardo, rispettando la filosofia interdisciplinare di Wired che fa della contaminatio una caratteristica principale.

Ma mi dirigo verso Palazzo Vecchio soprattutto per un evento: lo showcase di Devendra Banhart che avverrà nella splendida cornice della Sala dei Cinquecento. Purtroppo l’arrivo dell’artista americano è preceduto dall’esibizione – perdibilissima – di un altro americano: Joe Bastianich.

La scena è surreale sin dall’inizio: nelle casse Calcutta, fuori la pioggia, e Joe che arriva con cappellino e chitarra. “Bioparco*  – penso io – ora non ci toccherà mica la solfa di lui che vuole giocare a fare il rocker”, e mentre maledico il fatto di non poter uscire dalla sala (chi esce non rientra, e dopo c’è Devendra) lui attacca con la stucchevole solfa da me temuta.

*non proprio quella parola, ndr.

E allora il buon Joe ci racconta di quanto era sfigato da ragazzo (“mia nonna mi chiamava Giuseppino davanti ai miei amici”) e di come la musica gli ha cambiato la vita, inanellando una serie di luoghi comuni su Bob Dylan, Nirvana e Led Zeppelin che nemmeno Virgin Radio. Si è anche cimentato in accenni di cover, ma qui sorvolo davvero.

devendra

Arriva finalmente il momento di Devendra Banhart ma il microfono non funziona. È prevista, prima dello showcase, una breve chiacchierata accompagnata dalle immagini dei suoi dipinti, chiacchierata che per problemi tecnici non parte benissimo.

L’audio va e viene, l’intervistatore comprensibilmente si emoziona e Devendra inizia a divertirsi con risposte brevi e sarcastiche, gesticolando col “nuovo” microfono come se fosse lui l’intervistatore. Istrione da palcoscenico, cattura subito la scena confidando ai presenti di quanto sia importante la bellezza, a partire dalla sala che lo sta ospitando:

“Beauty is very important, because beauty is everywhere. Beauty is this place. Don’t let the beauty defines you, but you define beauty.”

E prosegue ieratico:

“Real beauty comes from suffering, real beauty comes from humility.”

Interessante come il concetto di umiltà si ricolleghi alla perfezione con quello che diceva poco prima Massimo Bottura, quando si soffermava sull’importanza del gruppo di lavoro e sull’inconsapevolezza della massa quando identifica un idolo e ignora l’organizzazione necessaria per raggiungere certi risultati.

Al netto dei dispetti dell’audio, la conversazione prosegue toccando argomenti come Vinicio Capossela (perché ti piace? ‘Cause it’s good) e l’arte, in cui Devendra racconta quanto anche i disegni più semplici gli abbiano occupato molto tempo, poiché usa pennelli formati solo da tre peli di cavallo.

Quando imbraccia la chitarra l’atmosfera si fa subito diversa, più intima. Le corde appena sfiorate per Mi Negrita rendono la Sala dei Cinquecento un luogo ancora più armonioso, l’aria più leggera, ravvivata poi da Quedate Luna e Carmensita.

Devendra Banhart si diverte, scherza col pubblico, ma ho la netta sensazione che per lui l’arte sia una cosa seria, anzi sacra, e come tutte le cose sacre non va banalizzata in frasi fatte. Una dedizione totalizzante, tant’è che alla domanda “quando hai iniziato ad appassionarti ad altre forme d’arte oltre alla musica?” la sua risposta è stata piuttosto eloquente:

“Beh ma perché, c’è un inizio? C’è un prima e un dopo?”

Si fa ora di cena e Piazza della Santissima Annunziata comincia a popolarsi: la serata prevede i live di Khompa, Playroom, Joan Thiele, M+A e Jon Hopkins. Arrivo giusto in tempo per il producer londinese, anzi becco proprio il momento di pausa, dove la gente smania. Chiedo a un ragazzo apparentemente normale:

– Hanno già suonato gli M+A?
– No, cioè non lo so, c’era una ragazza…
– Ah, allora era Joan Thiele.
– Eh può darsi… poi c’erano tre ragazzi… facevano dance
– Ok come non detto.

Questo è stato lo scambio surreale ma bello che mi ha accompagnato durante quel limbo insopportabile tra un’esibizione e l’altra. L’affluenza c’è ma minore di come mi aspettavo, forse complice la pioggia che dovrebbe tornare da un momento all’altro.

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Jon Hopkins è carico, sorseggia continuamente birra e si muove a tempo. Ormai sono passati tre anni da Immunity e l’attesa per del nuovo materiale comincia a farsi importante.

Il suo dj-set mi fa tornare alla mente quello di Nicolas Jaar del C2C15, pensato, calibrato, potente. Un flusso continuo che non si perde in inutili preamboli o variazioni fuori contesto: è un treno, e viaggia verso un’unica direzione. I momenti sospesi non mancano, abilmente disseminati tra una rifrazione e l’altra.
Il paragone con Jaar mi stuzzica ancora di più visto che a novembre ci sarà proprio Hopkins al Lingotto per il Club To Club 2016.

Sulla via del ritorno, penso alla fortuna di aver potuto assistere alle esibizioni di artisti così importanti senza pagare il prezzo di nessun biglietto. “Si può fare” dico dentro di me. E in quel momento, ricomincia a piovere. Beh, poteva andare peggio.