vastosiren

Il centro Italia, questo sconosciuto.
C’è da dire che dalla parte dell’Adriatico i festival musicali di un certo spessore si contano sulle dita di una mano (ma anche di mezza).
Il Beaches Brew a Ravenna è una gran cosa, tutto bellissimo: la spiaggia, gli artisti, il pogo e le urla.
Basta varcare il confine però e si finisce nelle Marche: difficile non ammettere che negli ultimi anni la regione stia tirando fuori artisti molto interessanti, altrettanto difficile è la situazione eventi, niente che riesca a catturare l’attenzione, si resta lì con le sagre di paese e qualche serata reggae sparsa per dare a tutti la possibilità di farsi le canne senza sentirsi in colpa e dare l’impressione che l’estate sia cominciata.
Basta scendere di poco ed ecco una vera e propria oasi, un borgo a sud dell’Abruzzo arroccato su un altopiano che si affaccia dritto su un mare cristallino, un posto in cui alcune teste hanno iniziato a ragionare, ad appassionarsi e a trovare un punto d’interesse comune nella musica – la musica che ha senso proporre ad un pubblico giovane e pronto a tutto.

Ecco dunque che vede la luce la prima edizione del Vasto Siren Festival con una line-up che chiunque invidierebbe.
Noi cervi ci siamo mossi, in partnership con l’evento, per potervi documentare la due giorni più bella dell’estate italiana.

 

GIORNO 1

É venerdì 25 Luglio, si parte con un giorno di ritardo – e perdiamo la visione di Mistaken For Strangers dei National – ma tutto sembra già girare per il verso giusto, la giornata è perfetta e il viaggio non pesa.
Arriviamo a Vasto e ci innamoriamo subito

10581794_682856865103204_1528697984_n

Il paese lì in alto è bellissimo, una passeggiata in Via Adriatica appaga i sensi, ma avremo tempo di rilassarci più tardi perché i nostri amici Boxerin Club stanno già suonando a poche centinaia di metri di distanza e non abbiamo la minima intenzione di perderceli.

10564748_682856848436539_2072707859_n

L’Arena delle Grazie è un piccolo anfiteatro di concezione abbastanza moderna circondato da una piccola pineta e con il mare alle spalle; i nostri amici romani ci ricordano sempre quanto può essere bello e variopinto un concerto dal vivo, ci fanno saltare e ballare a ritmo di tutte quelle contaminazioni “estive” che rendono ogni loro esibizione unica, divertente e impeccabile dal punto di vista tecnico.
In Piazza del Popolo stanno per iniziare i Dry the River, il pienone ancora non si vede e la musica del quartetto inglese ci stuzzica tra una birra e una chiacchiera, l’impatto è decisamente buono tra voci che si incastrano alla perfezione e schitarrate che non si lasciano attendere, l’impianto spinge esattamente come ci aspettavamo tanto che iniziamo a fantasticare su quello che ci aspetterà a serata inoltrata.

Si torna di nuovo in Arena per i Ninos Du Brasil, tante basi e poca musica dal vivo ma per chi non è nuovo ai loro concerti è una cosa normale, si sa che il bello del duo è il tiro che hanno mentre scapocciano sui loro timpani e saltano come degli impossessati tra coriandoli e luci spacca-rètine; un flusso continuo di percussioni ci muove automaticamente le gambe.

È ora di cenare e nel frattempo ci facciamo scappare i Soft Moon… Sì, ce ne pentiamo anche noi ma non ci perdiamo in chiacchiere che a breve iniziano i National, le lacrime preferiamo tenerle per i testi di Matt e compagni.
Prendiamo posto e ci posizioniamo in seconda fila, dopo un po’ di attesa eccoli qui (ecco perché ci siam persi i Soft Moon), belli come sempre e con tanta voglia di spaccare. Matt sale sul palco nei suoi soliti Levi’s neri, la sua camicia nera nascosta in parte dal gilet nero che lascia intravedere una cravatta nera, e quelle scarpe nere che dovranno faticare per farsi spazio tra la platea più tardi.
La scaletta non lascia niente al caso, si parte subito con due pezzi del nuovo capolavoro Trouble Will Find Me, Don’t Swallow the Cap e I Should Live in Salt, la gente risponde bene, canta si emoziona e sbraccia; come un rintocco, puntuale, precisa ecco Bloodbuzz Ohio – e che ve lo devo dire io?

If I stay here trouble will find me” e si piange (SI PIANGE HO DETTO) su Sea of Love. C’è da dire una cosa subito subito: non c’è mai un loro live che non sia stupefacente.
Può essere per l’impatto, può essere per la quantità di persone che vedi dondolare e abbracciarsi, può essere per l’insolita, apparente, sobrietà noir di Mr. Berninger, per i momenti pazzi dei gemelli Dessner o per le ritmiche incalzanti dei fratelli Devendorf.
Mai un live uguale all’altro e non c’è niente di forzato, niente che non venga fatto spontaneamente anche se a volte così può non sembrare.
Sorrow e Afraid of Everyone ci riportano al 2010 di High Violet e ora si sente davvero che ci siamo dentro fino al collo, tanto da non volerne uscire più. Notiamo una certa differenza all’interno del pubblico: i pezzi in scaletta non prendono tutti allo stesso modo, una parte del pubblico sbraccia e canta di più con i pezzi di Trouble Will Find Me, un’altra parte invece si lascia trasportare di più dai precedenti lavori della band di Brooklyn. Questo fa riflettere su quanto i National abbiano finalmente raggiunto la definitiva consacrazione. Il nuovo album uscito lo scorso anno è arrivato ai più rendendo i National una band di una portata molto maggiore. A volte i 5 non sembrano una band capace di reggere migliaia di persone davanti, devono apportare qualcosa in più per riuscire a reggere il confronto con il pubblico, e il fatto che ci riescano è davvero esaltante.
Seguono Squalor Victoria, I Need My Girl, This Is the Last Time e Geese of Beverly Road a tenerci la testa sotto un mare di musica sublime.
Con Abel si urla, Slow Show e Pink Rabbits di un’empatia che non è possibile descrivere.
England, Graceless e Fake Empire ci avviano alla fine e la piazza se ne accorge, stanno per arrivare le mine (come se non ce ne fossero già state abbastanza).
Una mezza sorpresa è Wasp Nest dall’EP Cherry Tree, e quelle chitarre che ti alzano la pelle di venti centimetri non tardano ad arrivare, ecco Mr. November. Qui anche i cervi più duri si sarebbero sciolti: Matt prende il suo microfono, scende con il cavo penzolante, decide di venire in piazza passando dentro ad un locale e uscendo sul bancone dove si spinano le birre, sale.
Dal balcone sopra la sua testa si affacciano due signore sulla sessantina e il frontman non ci pensa due volte a girarsi con un bicchiere in mano gridando “I won’t fuck us over, I’m Mr. November I’m Mr. November, I won’t fuck us over!!!”.
Noi siamo sudati, emozionati e sappiamo che adesso non si ha tempo per riprendere fiato. Lo abbracciamo velocemente mentre torna sul palco per chiudere questo spettacolo e intanto la marcia solenne di Terrible Love inizia.
Anche qui non ci passa minimamente per la testa di rimanere in silenzio e, rintronati dall’euforia, non possiamo fare altro che abbracciarci.

Per chiudere c’è sempre tempo e come se non bastassero le urla arriva Vanderlyle Crybaby Geeks: il microfono è girato verso la piazza, Matt si tuffa su di noi tra le prime file, indimenticabile come sempre.

Quando ringraziano e se ne vanno sembra che tutto sia durato troppo poco, giornata memorabile, ci si addormenta col sorriso sapendo che l’indomani si replica.

GIORNO 2

Al contrario delle aspettative la giornata non si presenta esattamente rosea tanto che, dopo un breve giro in paese nel primo pomeriggio, decidiamo di tornare a casa: l’incessabile vento e una simpatica, fitta pioggia sembrano poter compromettere la riuscita del secondo giorno.
Così non è per fortuna e dopo qualche ora ci troviamo in Piazza del Popolo ad ascoltare John Grant, che ci piace lo sapete già ma dal vivo rende ancora di più. Apre con Vietnam, chiude con Queen of Denmark, balza dal piano elettrico ai sintetizzatori con la sua voce profonda e riscaldante. C’è un gran bel lavoro dietro al suo spettacolo, da brividi.

Al Cortile del Palazzo d’Avalos ci aspettano i Fuck Buttons e dopo quella manata di Slow Focus dello scorso anno non vediamo l’ora di spolparceli dal vivo – e le aspettative non vengono affatto deluse.

Tra droni, visuals malatissimi e teste fluttuanti il duo di Bristol ci rapisce nel vero senso della parola, ci limitiamo a ciondolare catturati da quello che è uno dei più bei live dell’intero festival.
Ancora frastornati e sconvolti prendiamo posto in prima fila per il live dei Mogwai, si parte subito con White Noise e I’m Jim Morrison, I’m Dead.
Niente di esaltante in tutta onestà, sarà che è la seconda volta che il sottoscritto ha modo di vederli a pochi metri e anche alla prima occasione non è che abbiano lasciato un ricordo indelebile, sarà che il loro post-rock è tra i più scontati in circolazione, sarà che avranno spinto poco l’impianto ma non me ne vogliate, il live è asettico e un po’ piatto.

Si procede con Master Card, Ithica 27-9, Rano Pano e How To Be Werewolf e ancora niente, non si vola. Auto Rock è l’unico pezzo che riaccende un po’, il piano martellante e il crescendo finale ci smuovono qualcosa dentro ma poca roba, bene Remurdered.
Hounted By A Freak e Mogwai Fear Satan chiudono l’esibizione che a conti fatti lascia l’amaro in bocca.
Non so se mi spiego, questo genere musicale è forse uno tra i più difficili da proporre dal vivo, l’impatto è tutto e lo spettatore ha bisogno di vivere un’esperienza sonora e magari anche visiva, deve potersi isolare. Bravi eh, per carità, ma si può fare di più.

Non sarà comunque questo a influire negativamente sull’idea che ci siamo fatti di questa splendida, neonata realtà: il Vasto Siren Festival è qualcosa di unico, la cornice territoriale è perfetta e così suggestiva, l’organizzazione è stata perfetta, i volontari sempre con il sorriso stampato in faccia nonostante le difficoltà che si possano incontrare in una prima edizione di questa portata – e poi quei cazzo di arrosticini!, sono buonissimi.
Grazie Siren Festival per la fantastica esperienza con tanti auguri per la prossima edizione, di sicuro non mancheremo.
Una grande iniziativa nata in un così piccolo paese dal cuore immenso.

L’Italia può.

Qui Matt ci ha presi in pienissimo con il suo bicchiere di vino bianco, e noi ricorderemo a lungo anche questo.