Per il terzo anno consecutivo l’ultima domenica di agosto a Torino è stata la più intensa e insieme la più maliconica dell’estate musicale italiana, perchè quello col TOdays è ormai diventato l’appuntamento che chiude la stagione dei festival disseminati sulla Penisola, che sono sempre più numerosi ma che difficilmente riescono ad eguagliare la proposta della kermesse torinese. Una tre giorni che invade un’area post industriale a nord-est della città storica, un’altra faccia di Torino, diversa da quella fatta di porticati eleganti e piazze alla francese, quella che a James Mercer sembra essere piaciuta molto, ce lo dice lui stesso mentre suona sul palco allestito sul retro di sPAZIO211, per la prima volta in Italia di The Shins.
La serata è iniziata già da un po’ quando le due anime della band di Portland salgono ad intervallarsi sullo stage, quella surf, slavata e cinematografica, per cui si sono fatti amare sin dagli esordi, e quella synth pop e squillante di Heartworms, con cui hanno scelto di tornare quest’anno. Ghirlande di fiori colorati adornano un set al gran completo, coi rinnovati sodali di Mercer ad alternarsi alla strumentazione: basso, batteria, tastiere, chitarre, senza lesinare e persino una parentesi con gli archi. Il palco gremito sprigiona un arcobaleno di energia travolgente il cui unico effetto negativo è il rimpianto per non averne potuto godere prima d’ora dalle nostre parti.

La domenica è andata nel migliore dei modi. I Band Of Horses hanno sigillato questa edizione del TOdays col loro southern rock, rotondo e propulsivo in versione live, e la sinergia palpabile a base di ironia e sorrisi che unisce Bridwell e i suoi a un pubblico estremamente partecipe, una formula efficace dipanata su un’immagine di foreste d’oltreoceano, un fondale ad hoc per questo alt country che dal vivo sembra saper ovviare alla mansuetudine che in parte affligge anche il loro ultimo Why Are You Ok. Umori decisamente diversi rispetto a quelli con cui qualche ora prima i Timber Timbre hanno tinto di nero elegante il tramonto torinese. Un suono che ti perfora lo stomaco, quello degli schivi canadesi, e quella di Taylor Kirk, per l’occasione in camicia animalier, è una di quelle voci che ti si insinuano viscose nelle orecchie, insieme agli inserti di sax che lucidano la sensualità tagliente di un impeccabile impasto di psych e blues.

È andata bene nonostante l’eccessivo zelo nelle procedure di sicurezza a cui è necessario attenersi da qualche mese a questa parte, che quest’estate hanno messo a dura prova le organizzazioni di qualsivoglia evento aperto al pubblico. I ritmi dei controlli all’ingresso hanno comportato qualche coda in più del dovuto, come quella per cui una fetta di pubblico non ha potuto assistere sin dall’inizio al primo set della giornata, quello di Andrea Laszlo De Simone. Il cantautore gioca in casa ed è corredato di tifoseria, i musicisti della scena torinese più recente lo accompagnano sul palco o lo supportano da sotto. In giro c’è Bianco, a una certa viene avvistata anche Levante. C’è anche Calcutta che di Torino non è ma vabbè, lui ormai è ovunque.
È andata bene nonostante la burrasca scatenatasi sui social l’altra sera, forse perché oggi il pubblico è in un certo senso più omogeneo rispetto a quello dei giorni scorsi (o forse perché ai presenti la musica interessa più dei clickbait). Quella di mettere insieme in uno spazio circoscritto i seguaci di artisti molto diversi tra loro – quelli di Perfume Genius e quelli di Richard Ashcroft, ad esempio, ma lo stesso vale per i devoti a PJ Harvey mescolati ai fan di Mac DeMarco è una delle scelte che alzano l’asticella della qualità in un festival, ma è anche una filosofia che rischia di fare di una manifestazione musicale una sorta di esperimento etologico, dai risultati non sempre prevedibili.

È stata l’incantevole Polly Jean la prima headliner a salire sul palco venerdì sera. L’esigenza di adeguare la scaletta del tour di The Hope Six Demolition Project alle tempistiche da festival non ne ha inficiato la solennità, grazie a un set che riveste di nuova impetuosa oscurità anche i brani più datati e collaudati come To Bring You My Love. Le geometrie di luce della scenografia hanno incorniciato perfettamente l’incedere marziale della band armata di ottoni e percussioni, lungo i vecchi e i nuovi successi della riot grrrl assurta all’olimpo degli dèi del rock contemporaneo. Ma tale religiosa teatralità non è riuscita a rapire l’intera platea, tanto che sul finale di River Anacostia, con lei e sodali disposti in riga per il coro che ha concluso la performance, gran parte del pubblico si è lasciato andare a un battito di mani di accompagnamento inopportuno, o quantomeno non richiesto. Fan di Mac DeMarco impazienti di cambiare mood? Forse. Di certo concettualmente il successivo è stato un live diametralmente opposto a quello di PJ (e di certo non tutti assistono a una rassegna musicale con la volontà di dedicare la stessa attenzione a ognuno degli eventi in programma), a partire dall’ingresso in scena, tutt’altro che formale e coreografico. Con immancabile paglia in bocca, il giullare del jangle pop canadese è salito sul palco a srotolare cavi insieme al suo staff, per poi fare un rapido check insieme ai suoi e via, iniziare il concerto senza tanti fronzoli. Quello in scena era però un Mac inaspettatamente placido. Qualcuno ha avanzato la plausibilissima ipotesi che fosse in hangover dalla sera prima, all’AMA Music Festival. Meglio così, perché di questo ragazzone forse si conoscono molto le stramberie on stage e poco le doti da musicista: dietro a quel fare scanzonato c’è uno capace di prendere un pezzo di infima dance anni ’90 e costruirci un blues gustosissimo, una chicca tra i brani del nuovo This Old Dog e quelli dell’apprezzatissimo Salad Days.

Insomma, solo piacevoli conferme dagli artisti in line-up al TOdays, e persino una bellissima sorpresa. Quelli che sabato hanno varcato i cancelli con nessuna pretesa se non quella di concedersi un viaggione nostalgico, alle 21.30 si sono ritrovati davanti a un rocker d’antan dal carisma inalterato. È stato un incredibile Ashcroft, su cui il tempo non sembra aver avuto effetti deleteri (se si esclude un look da vero tamarro che poco ha a che fare col fascino con cui falciava il marciapiede del videoclip di Bitter Sweet Symphony). Sono trascorsi vent’anni dal disco che consacrò i suoi The Verve, e la fanbase di Richard contempla almeno tre generazioni e continua ad arricchirsi, nonostante i tentativi poco riusciti di tornare con musica nuova (l’ultimo due anni fa con These People, di cui ha suonato solo un paio di pezzi): alle mie spalle una famiglia intera – padre e madre over 40 con figliolo ventenne al seguito – non si è risparmiata nel cantare a squarciagola pezzi come Sonnet o i successi da solista come A Song For The Lovers e Break The Night With Colour.
Ma è prima di lui che si è esibito l’artista di cui si è parlato di più in questo TOdays 2017, purtroppo per questioni che riguardano poco la sua musica. Mi auguro che il mio personale resoconto possa fornire qualche dettaglio utile alla lettura di una faccenda di cui si forse si è già detto troppo, e troppo presto.

Sono le 21.15 di sabato sera quando Mike Hadreas sale sul palco insieme alla sua band. Ha indosso una canotta bianca, un paio di pantaloni di taglio sartoriale personalizzati da balze di stoffa all’altezza delle ginocchia, ankle boots in vernice nera. La stravaganza è al di sotto delle aspettative, almeno a stare a sentire la signora accanto a me. Dev’essere alla soglia dei 50, e dopo aver comprato il biglietto per il concerto di Richard Ashcroft deve aver googlato “perfume genius”. Dopo aver appreso qualcosa di lui sul web, deve aver necessariamente immaginato di vederlo arrivare sul palco in una mise da drag queen, e invece questo qui si è presentato senza neanche un po’ di rossetto. La performance di Mike sta andando alla grande, in un crescendo di prodezze vocali intervallate da movenze sceniche e provocatorie, quando a un tratto il flusso magnetico è interrotto da un imprevisto. Coreografie evidentemente troppo estreme per le cuciture del pantalone, che gli si è strappato. Sul sedere. L’esibizione non si ferma, mentre l’artista cerca di capire l’entità del danno facendo cenni ai musicisti alle sue spalle, cenni discreti ma non abbastanza da impedire alle prime file di comprendere l’accaduto. Così le contorsioni di Perfume Genius si placano per un po’, ma non il vociare del pubblico in transenna. Nonostante l’artista stia riuscendo a gestirla bene, c’è da ammettere che la situazione ha del comico. L’avrebbe anche se si trattasse di un eterosessuale? Io credo di sì. È una comicità becera ma intramontabile quella che ha a che fare con la possibilità di un culo scoperto in pubblico, indipendentemente dalle inclinazioni sessuali del proprietario del culo in questione. Fatto sta che qualcuno tra i più vicini al palco dice qualcosa che infastidisce l’artista (un’offesa? Non saprei dirlo con certezza). E Hadreas stavolta risponde, stizzito, con una specie di “vuoi salire tu sul palco a controllare?”. L’invito è seguito da un insulto, un “bitch” che tutto il pubblico percepisce, anche i meno attenti, anche i socialite che stanno dando le spalle al palco. A mo’ di sfida, Mike riprende con le sue danze scenografiche, e sulle note di Queen conclude lo show e porta a casa il risultato.
Nel giro di un’ora sui social inizia a circolare il famigerato post sui presunti epiteti omofobi espressi da un fan di Ashcroft (dopo poco giungeranno le attenuanti: era ubriaco e inglese), e la cosa fa tornare i conti: quale altro motivo potrebbe aver spinto Mike a insultare uno dei presenti se non l’esser stato chiamato “faggot”? Due più due fa sempre quattro. Il resto della storia è noto. Anzi, no. Forse non è ancora noto a tutti il fatto che lo stesso autore del post scatenante abbia precisato in seguito che a pronunciare insulti era stato un gruppetto di persone, che commentavano tra loro (non che hanno urlato) e che si trovavano alle sue spalle (non tra le prime file).

Chi si è scagliato contro l’omofobia che affligge l’Italia, probabilmente ha ragione, ché a quanto pare ci aspettiamo ancora che gli omosessuali si vestano come clown, ma in ogni caso il nostro difetto peggiore resta l’ingenuità.

Per il resto, che la fine dell’estate a Torino sia fatta di buona musica è ormai una garanzia che non ha bisogno di sensazionalismi.