Appena ho letto che i The War On Drugs sarebbero approdati in Italia per due date, sono impazzito di gioia. Poi mi sono calmato, e ho guardato bene DOVE avrebbero suonato: là, nei pressi di Pordenone, e a Sestri Levante. Opto per la seconda, con il costume già in macchina.

Arrivato a destinazione nel pomeriggio, parcheggiando nei pressi di via Baden Powell (un giorno il sindaco di Sestri mi spiegherà perché ci sia una via per lui), comincio a fantasticare con la mia amica: “Come sarà la location?”. Arriviamo alla Baia del Silenzio e:

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Ok, decisamente meglio dei soliti locali del milanese (non me ne vogliate, eh), nell’ex-convento proprio là in fondo dove c’è la torretta che spunta. E poi, è la miglior giornata di attesa per un concerto: bagno, un bel pezzo di Recco da abbuffarsi e sentire in lontananza, al tramonto con una buona 66, il soundcheck con Suffering (!!!).

Entriamo per le 20:45 e, come già sbirciato in precedenza, ci troviamo in una sorta di piccola arena con una terrazzona rialzata sulla baia, ed è subito un altro motivo per gasarsi, perché sai che sarà una cosa più intima e non caotica. Inoltre, non siamo tantissimi.
Salgono sul palco ad aprire il bolognese His Clancyness con band al seguito: una buonissima apertura della serata, il loro alt-rock/wave è ben suonato e piace al pubblico presente, poi il fatto che Jonathan Clancy sia il sosia bianco di Twin Shadow me li rende ancora più simpatici. Insomma, si inizia bene.

Dopo pochi minuti, come se fossimo in un piccolissimo club di provincia, appaiono proprio loro, i War On Drugs, a preparare la loro strumentazione. Ed eccolo Adam Granduciel, che in tutta tranquillità accende i sui due vox, e comincia a provare suoni e volumi, smanetta con la sua pedaliera, nella stessa maniera in cui faccio io quando suono davanti a massimo 30 persone con il mio gruppetto. Il suo sguardo pare trapeli un po’ di tensione per l’esibizione, quella normale di (quasi) tutti i musicisti negli attimi prima di un concerto, ma allo stesso tempo mi da l’idea di un tranquillone che sta per regalarci una grande performance.

Si comincia con la drum machine di An Ocean in Between The Waves: veramente, basta il primo minuto per capire la grandezza di questa formazione. Le sonorità sono fantastiche: la vaga psichedelìa sempre presente, i riverberi evocativi, quello stampo rock senza tempo. E poi la chitarra di Adam, sempre molto presente, con un setup ricercato e versatilissimo. Si salta subito al precedente Slave Ambient con una stupenda Baby Missiles: potrebbe apparire Mark Knopfler a farci un assolo.
Tanto per intenderci, se avete ascoltato per bene Lost In The Dream, è impossibile non sentirci dentro Springsteen, i Dire Straits, Bob Dylan: il tutto riformulato in maniera comunque unica ed originale, con una vena melanconica che in verità ti lascia un sorrisone stampato in faccia. Tutto quello che accade ascoltando l’album, sta accadendo ora dal vivo, in maniera esponenziale.

Difatti sono tanti i momenti salienti dell’esibizione.
Eyes To The Wind è come volare, l’arrangiamento di questo pezzo è stato ponderato per mesi, ne è valsa veramente la pena: Adam ci infila poi una lunga fila di assolo fantastica, cosa che farà per la maggior parte dei pezzi con una particolare voglia questa sera, assorto a svisare sulla sua fedele Les Paul (da chitarrista, che suono ha la sua Les Paul, mioddio!) con le sue grandi mani.
Red Eyes è probabilmente una delle cose più belle che sentirai nella tua vita dal vivo: nel momento esatto in cui parte il riff del ritornello, la folla impazzisce, è qualcosa di irrefrenabile, tutti gli occhi diventano cuori. Subito dopo, c’è tempo di sognare ad occhi aperti con Suffering, personalmente una delle mie preferite: la band è in perfetto equilibrio sulle dinamiche, tastiere e sax danno l’atmosfera caldissima che serve ad un pezzo così delicato.

Intanto mi guardo in giro: il pubblico ha un range di età molto vasto, e credo che molti siano lì un po’ a caso, perché “c’è un gruppo che suona stasera”, e la sensazione è che ne siano rimasti altrettanto stregati.

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Under the Pressure, con un testo stupendo, è accolta con un boato, ed è quella con un piglio un po’ più psichedelico in questo set – sono rimasto praticamente incantato tra le trame di synth e i feedback della Gibson.
Adam, dopo una piccola lezione di italiano con il pubblico, chiede “Any Request?”, in molti urlano “IN REVERSE!”: dopo qualche pezzo, quando arriva, è vera magia. Cominci a chiederti veramente come facciano, e a che livello di intesa siano questi musicisti, tutto questo mentre sei letteralmente ipnotizzato. Stesso discorso per la title-track Lost In The Dream, ma a quel punto ho già smesso di farmi domande.

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Dopo l’encore, la magia finisce. Il clima tra la folla è felice e rilassato, e in un piccolo gruppetto ci mettiamo ad aspettare che tornino sul palco a smontare per braccarli.
Adam ora ha la faccia più rilassata, è un omone molto alla mano ed è molto felice di essere stato qua a suonare. Si concede a foto e a due chiacchiere, ha una parlata velocissima ed è felicissimo quando tiro fuori il suo vinile da farmi autografare. È bello poter incontrare artisti che stimi tanto senza che facciano le star, una volta ogni tanto.

Inoltre, il suo gruppo fa la differenza. Menzione speciale per il bassista Dave Hartley, fondamentale per la compattezza del gruppo, abile nel seguire Granduciel con i suoi fraseggi. E non dimentichiamoci del tastierista timidone e di quel batterista così freak: facce impagabili, e uno stile tutto suo, seduto sul trespolo.

Che dire?

I The War on Drugs ci hanno regalato un super concerto. Vittorio, un personaggio conosciuto sul posto che per raccontarvelo mi servirebbe un altro articolo, dice che se li aspettava “più ruvidi e tripposi”, ma sono convinto che non sia la loro dimensione del tutto ideale. Sono bensì più abili a costruire una atmosfera onirica in bilico tra classici standard rock e raffinate sonorità elettroniche.

Comunque io gliel’ho detto ad Adam, “mi raccomando torna in Italia!”. Ha detto che tornerà di sicuro, io spero ogni 15 giorni.

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