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L’assunto che Torino sia considerata capitale italiana dell’innovazione, ben anticipa lo spirito che ha preceduto questa serata. La cornice è il noto Hiroshima Mon Amour fiore all’occhiello di una zona non proprio indimenticabile del capoluogo piemontese; l’organizzazione invece nasce dall’incontro di due tra gli staff più fighi in circolazione. Si parla infatti di Field Day + Club To Club, una partnership nell’intento di anticipare il vero e proprio Field Day London (che avrà una line-up tutta da piangere) tramite una serie di tappe in tutta Europa. 

Il pubblico risponde bene all’offerta, registrando un sold-out (impossibile il contrario se pensiamo ai 15€ di spesa) e un’affluenza lenta ma costante. I primi ad arrivare sono per forza di cose i fan del meno noto tra i tre big che si esibiranno; parliamo di SOHN che già dalle 22:30 ha lo sporco compito di scaldare il pubblico. L’atmosfera che l’austriaco trapiantato riesce a creare è pazzesca: grazie ad un impianto acustico di altissimo livello, la sala centrale dell’Hiroshima si trasforma in una stanza dello spirito e del tempo. I bassi sono potentissimi, e la voce di SOHN  riecheggia limpida e teatrale; lo spettacolo però è reso ancor più suggestivo dalle installazioni che stanno dietro di lui, un set di colonne a led che vanno a ricreare la figura di un organo da chiesa, come clericale è anche il vestiario di Mr. Taylor, che con il suo cappuccione nero ricorda un esorcista. Saggiamente SOHN sa che non è il caso di bruciarsi i pezzi forti all’inizio e li tiene ben caldi per la seconda parte del suo show, quando il pubblico comincia a essere più consistente; sorpreso anche lui dall’accoglienza positiva che gli viene riservata, si scatena e si emoziona su Artefice Tempest, pezzi di punta del suo TremorsIl compito è riuscito alla perfezione e il pubblico è pronto.

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Di Oneohtrix Point Never non si avrà mai un parere uniforme, purtroppo alcuni lo considerano “a total waste of time” come si affretta a instagrammare al secondo brano il signorotto che ci ruba il posto in prima fila per il puro gusto di provarci con la tardona che accompagna. Probabilmente non riuscire a capire che OPN rappresenta uno dei musicisti più innovativi e importanti dell’ultimo anno è un grosso limite. Lui se ne frega e sale sul palco come il più anonimo dei trentenni americani, con la buzzetta, un cappellino e una birra e comincia a creare psichedelia. Col suo compagno di visual Nate Boyce lo show va avanti per circa un’ora e mezzo; dalla valigetta in cui OPN cela i suoi segreti, partono sonorità suggestive che accompagnano lo straordinario lavoro di grafica. Il pubblico è esterrefatto, resta a bocca aperta senza muoversi, senza un accenno di lamentela all’italiana (se non qualche isolato e inconfondibile DAJE ) ubriacato dalle figure che si formano dal proiettore davanti a loro. Tubi, motori, prismi, figure geometriche e quant’altro si formano e si scompongono senza mai creare qualcosa di concreto; e così mentre cerchiamo di capire dove andrà a parare la prossima animazione OPN ci confonde senza mai esagerare, mantenendo per oltre un’ora il pubblico in bilico, fino a quando tutto il pathos sfocia in un’ enorme Boring Angel. Non resta che dire chapeau ad un’artista, prima che un musicista, che è riuscito a stupire tutti, anche i truzzi in canotta  giunti solo per Jon Hopkins.

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Il pubblico è carichissimo e preme dal giardino antistante l’entrata perché sa che è giunta l’ora. È l’una e tra una birra ed un “minchia che spettacolo” comincia una corsa frenetica sulle prime note dell’opening We Disappear che costringe la security agli straordinari. La sala si riempie all’inverosimile, il pubblico è diverso dai precedenti ma, va detto, egualmente educato. E Jon Hopkins è Jon Hopkins, come ce lo immaginiamo. La sua bravura sta nel lasciarsi coinvolgere almeno quanto coinvolge tutti noi; non si ferma un secondo, muove quelle braccia e quelle dita alla perfezione, ogni passaggio è perfetto, tutto fila liscio. Le tracce di Immunity scorrono veloci, intervallate anche da reminiscenze del precedente InsidesDavanti al palco due fari mandano fasci di luce colorata ora verde ora rossa, mentre dietro di lui scorrono animazioni molto più concrete rispetto al suo predecessore, prima lo skater di Open Eyes Signal poi la ragazza mezza nuda di Collider. Jon Hopkins fa contenti tutti, balla e fa ballare, senza bisogno di aizzare il pubblico come i dj da strapazzo di Ibiza: lui sa come si fa la musica elettronica. E quando alla fine dopo poco più di un’ora le luci si accendono e appare l’enorme scritta JON HOPKINS alle sue spalle il pubblico è in delirio, sapendo che purtroppo lo show è già finito.

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Lentamente si svuota un Hiroshima appagato e stremato (nonostante la serata sia continuata fino a notte fonda). Il sentimento è che finalmente in Italia le cose stiano cambiando e non ci facciamo più riconoscere per la cafonaggine del pubblico o per la scarsa affluenza che spaventava gli organizzatori, che hanno spesse volte preferito saltare date nel bel paese. La serata è un successo, l’organizzazione è impeccabile e noi siamo contenti così.