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Aspettavo il roBOt di quest’anno da mesi, dalla fine dello scorso con Hopkins che fa un live immenso di preghiera e orgasmi, dall’annuncio dei primi nomi, dalla scoperta della presenza di Holly Herndon, autrice di uno degli album dell’anno, di Blanck Mass (vedi sopra) e di tutta una serie di artisti che rendevano l’evento imprescindibile se si abita a Bologna o nelle vicinanze, quindi.
Come da tradizione le serate si svolgono in due posti: dal mercoledì al sabato, tra le sette e mezzanotte si sta a Palazzo Re Enzo (in pieno centro, questo ha dei pregi evidenti e dei contro di cui parleremo dopo), tra le undici e l’alba di venerdì e sabato ci si sposta in zona Fiere, con tre stage per trentottomila metri quadri di spazio da riempire.
Premesso che io sono una persona sola mentre i palchi sono tre, sia in Fiere che a Re Enzo, parlerò solo di ciò che ho scelto di seguire, tra adorazioni messianiche e tentativi di bilocazione, per rispondere ad una domanda: com’è andata?

Mercoledì e giovedì

Il mercoledì la musica inizia alle dieci, la maggior parte della serata infatti è dedicata alle proiezioni: alle sette c’è un brevissimo mockumentary (Waiting for the gods) con brani degli italiani Edisonnoside e Yakamoto Kotzuga alla colonna sonora. Segue un documentario sulle origini della musica e della scena industrial, dopodiché il collettivo Onedotzero seleziona dei corti per circa settanta minuti di video, mentre Jozef van Wissem suona il liuto con spezzoni di film in loop alle sue spalle. L’età media tra il pubblico è molto alta ed i ragazzi che vedo fanno perlopiù parte dello staff, così quando dal liuto si passa all’ambient arrabbiata di Lawrence English in molti lasciano la sala (Salone del podestà, più di settecento anni di traffico umano tra Teatro Pubblico, campo di gioco e sala concerti) con una faccia perplessa, restiamo comunque in molti ad applaudire l’austriaco al termine dei suoi crescendo. Quando inizia Biosphere Palazzo Re Enzo è praticamente pieno, lui suona la sua musica eterea ad altissimi volumi, cosa che mi riempie di attesa per il resto di questi quattro giorni di festival, ma che evidentemente non funziona proprio con tutti, le ultime cose che sento prima di andarmene sono “Se domani è così mi sparo” e un poco convinto “Va be’, per dieci euro non è stato malissimo”.

Giovedì scopro che chi partecipa alle serate qui a Re Enzo molto spesso non ha idea di chi siano quei tipi sul palco o che genere di musica facciano, in fondo ha senso: è un evento nel pieno centro di Bologna e costa relativamente poco, ma se il giorno prima vedere più gente fuori dalla sala che dentro sembrava accettabile (era aperto solo il Salone del Podestà, comunque abbastanza pieno) oggi con tre palchi diversi la cosa si fa sentire parecchio, inoltre il posto è deserto fino alle nove passate, così la serata sembra cortissima, il tempo di sentire Flako, dividermi tra i Primitive Art (duo italiano di elettronica dal forte sapore tribale, bravissimi) e Toa Mata Band (credo lavori come fonico al roBOt, comunque unisce quel tipo di nerditudine che spinge a costruirsi i propri strumenti e campionatori e i Bionicles) e passare un po’ di tempo a vagare tra Uovo dei Pasta Boys e Chevel, tempo di cui il mio cervello svogliato ha rapidamente eliminato qualunque informazione.

Venerdì

Palazzo re Enzo è ancora in mano ai fumatori con coktail, arrivo abbastanza tardi perché ci sia qualcuno ma non così tanto perché il posto sia pieno. Il Salone del podestà è occupato da Powell e un centinaio di persone lì a ballare club music cattivissima, comprensibilmente il cambio con Koreless e la sua elettronica più sognante lascerà tutti un po’ straniti all’inizio, entrambi regalano comunque un’ora di buona musica, nonostante i mood totalmente diversi. La scaletta in Sala re Enzo è impostata sul connubio tra suoni e video, tra i Junkfood 4tet e Morkebla accompagnati dalle visuals di Carlotta Piccinini e Sara Scanderebech. La Sala degli atti è tutta italiana: Corrado Bucci, Capibara (per la prima volta in tre giorni la gente si è mossa ad un live), Godblesscomputers e il fortissimo dj set di Populous che accosta samba, tequila e una camicia bellissima; si balla un po’ e poi corro a prendere un autobus che mi porti a BolognaFiere per seguire Blanck Mass, previsto per le undici e mezza (ma perché?). Due fermate e quattro controlli dopo riesco ad entrare, il posto è immenso e bellissimo. Va bene, Re Enzo è un palazzo costruito ottocento anni fa, affaccia sul centro di Bologna e l’idea di suonarci dentro elettronica (soprattutto non così scontata come ad esempio i Primitive Art e Lawrence English nei giorni scorsi) è affascinante, ma riuscire a stare all’aperto senza essere circondati da drink e cellulari, camicie bianche e intercalari bolognesi è tutta un’altra sensazione; dopo tre giorni di architettura gotica i padiglioni di BolognaFiere con luci e proiezioni sui muri ti trasportano nel futuro.
Anche qui però non tutto va come deve, la gente è davvero poca rispetto allo spazio disponibile e ci sono un po’ di problemi per Blanck Mass (che è costretto a fermarsi perché ha perso i bassi) e soprattutto per The BugEntrambi riescono a fare un buon live, ma sicuramente le cose potevano andare meglio. Passo un’ora e mezzo tra J.E.T.S, Alessandro Cortini e Sherwood & Pinch, finché non arrivano le due e decido di fare la mossa migliore della serata, cioè seguire la prima mezzora di Squarepusher e l’ultima di Evian Christ. Squarepusher è rumoroso ed aggressivo, Evian Christ è perfetto, i due per cui pagare il biglietto insomma. Ovviamente sono stato tra i pochissimi a pensarla così e molti si sono lamentati di Squarepusher – fa musica da venti anni, se non sai cosa stai per ascoltare è solo colpa tua. Quello per cui la gente ha pagato è il dj set di Nina Kraviz, che riesce a riempire finalmente il Main Stage, mentre a nessuno frega molto di Jimmy Edgar finito a sostituire Levon Vincent all’ultimo minuto.

Sabato

Piove, ma la popolazione di Re Enzo non cambia abitudini e preferisce restare all’esterno delle sale, regalando momenti magici come Rabit che suona di fronte al nulla. Passo da Prefuse 73 a Yakamoto Kotzuga (il disco versione live ha molto più senso) cercando di intercettare Caterina Barbieri e finisco ad ascoltare Clap!Clap! assieme a qualche centinaio di persone, lui è carico e si trascina il pubblico dietro, ma anche oggi la scaletta di BolognaFiere mi costringe a scappare prestissimo, alle undici c’è Holly Herndon ed io sono seriamente un fanboy.
Lei si lamenta un po’ per la poca gente presente (siamo comunque più del giorno prima a mezzanotte nello stesso stage o in un qualunque momento nell’Outdoor stage), cita Luther Blissett e Wu Ming e poi… Chi ha ascoltato l’album sa più o meno cosa aspettarsi, a parte alcuni intermezzi ballabili, assolutamente l’ultima cosa a cui avrei pensato. Lo show funziona e rispecchia a pieno il manifesto del roBOt di quest’anno, fa un po’ strano quindi che abbia suonato così presto, per quanto la line up di oggi sia fittissima, ma questa è forse l’unica delusione del giorno. Trascorro parecchio tempo poco fuori dal RedBullAcademy stage con alcuni svedesi che volevano parlare con qualcuno, dopo una lunga serie di luoghi comuni (“eh, voi avete Berlusconi”, evergreen) riesco a scappare per sentire un ottimo dj set di Talabot, mentre nel Main stage Trentemoller (sono entrato giusto un paio di volte ma noia) ha invertito gli orari con Daphni e Floating Points. Piccolo spazio polemica: moltissimi si sono lamentati per questo, per il fatto che non si possono cambiare gli orari all’ultimo minuto e che qualcuno avrebbe dovuto almeno avvisare; peccato che l’avviso fosse proiettato su un’intera parete alta venti metri e che comunque la cosa fosse già nota dal pomeriggio; dai ragazzi, potete farcela.
Prostitutes inizia magnificamente con un Hare Krishna e continua benissimo, purtroppo sta per iniziare Clark e mi tocca abbandonarlo. Il padiglione è pieno, lui inizia un po’ timidamente ma dal terzo pezzo si capisce che sarà l’evento principale del festival, quando arriva la fine sono totalmente impreparato e avrei bisogno di qualche momento per metabolizzare, ma presto suoneranno i Martinez Brother sullo stesso palco e quindi scappo via, ancora scosso. L’Outdoor stage inizia a riempirsi con Helena Hauff che non sbaglia nulla e dimostra tutte le sue doti da dj al contrario di Nina Kraviz, provo ad allontanarmi per sentire cosa propongono Daphni e Floating Points ma resto abbastanza deluso e torno da lei, seria e teutonica, giacca di pelle e vinili, un’ora e mezza di musica seria.
Alle sei la situazione è questa: da una parte Lory D e musica filotamarra, dall’altra Caribou (sì, Daphni), FP e arpeggi pop colorati. Resto a riposare per dieci minuti, poi il festival finisce, così.

Ma quindi, com’è andata?

Bene, tutto sommato. Ci sono stati degli imprevisti che potevano essere previsti, delle piccole scocciature inevitabili e tanta musica per arrivare al pubblico più vasto possibile. Il roBOt quest’anno ha tentato un evidente salto di qualità con una line up lunga e dei tempi fittissimi, si è scontrato con la realtà delle cose e ne è uscito intero, pronto ad andare avanti e migliorarsi come da otto anni ormai. Mancano dodici mesi al prossimo, attendo fiducioso.