140128-primavera-sound-lineup-schedule

Siamo reduci dal Parc del Fòrum di Barcellona, da quella 3 (e più) giorni che va sotto il nome di Primavera Sound Festival, pronti per raccontarveli.

10428861_10152585816624873_354271775_n

Il Primavera Sound Festival è stato negli ultimi anni sempre di più sulla bocca di tutti, e  finalmente questo week-end ha aperto le sue porte per poter accogliere frotte di fan, hipster e turisti da ogni parte d’Europa tutti uniti sotto il nome della buona musica. Il cartellone si propone ricco di grandi nomi e giovani promesse, e al solito come ogni anno è così rimpolpato che bisogna ahinoi prendere qualche decisione dolorosa riguardo il programma da seguire, su chi vedere e chi no. Ma andiamo con ordine e cominciamo subito:  

10402753_651452771576947_3539224462410955143_n

MERCOLEDÌ 

Temples – La band inglese che tanto Gallagher ha esaltato passa in rassegna gran parte dell’album uscito quest’anno (e da noi recensito). I quattro ragazzetti inglesi si presentano composti, suonano bene il loro rock psichedelico à la Tame Impala e riescono a far muovere il pubblico anche mentre imperversa il temporale più fastidioso

Stromae – Parentesi pop all’interno del festival che il cantante cavalca a dovere passando in rassegna i grandi successi per la folla piena di connazionali in visibilio. Riuscendo a non prendersi troppo sul serio Stromae canta, balla e si diverte, imponendosi come una popstar europea che può tranquillamente aspirare al grande pubblico di stadio

https://www.youtube.com/watch?v=_MyN8dK9lCw

Sky Ferreira – Castana, sorrisetto sbarazzino, occhiali da sole e posa cazzuta. La ragazza sa cantare e anche bene ma si è ritrovata a combattere con un tempo che non era dalla sua parte e soprattutto con vari problemi tecnici: più volte il volume sale e scende e non è mai ben chiaro che stia succedendo. Sky però fa spallucce e va avanti cantando “24 Hours”, “Lost In My Bedroom” fino al finale di “You’re Not The One”.  Un live che non ha dato il massimo ma per cause esterne per cui non ci sentiamo di muoverle alcuna critica.

GIOVEDÌ

St. Vincent – Accompagnata solo da una scenografia scarna e una chitarrista di supporto Annie Clark mantiene sempre alta l’attenzione su di lei: algidamente sexy coi suoi capelli quasi bianchi e la sua aguzza magrezza parte subito con Rattle Snake che acquista potenza live, mentre la  bomba Digital Witness quasi la perde non riuscendo a trasmettere la sua verve dance. Robotica nelle pose e nei movimenti, sembra quasi un manichino quando intona Cruel e Birth in Reverse, lasciandosi andare a qualche poderoso assolo nella parte centrale, quasi a voler ricordare che lei nasce come chitarrista – la sua immagine viene dopo

Neutral Milk Hotel –  L’attesa per i Neutral Milk Hotel era molto alta (almeno per il sottoscritto) e vi racconterei una cazzata se scrivessi che non ho versato neanche una lacrimuccia; già dall’inizio mi partite con The King of Carrot Flowers Pt.1 e l’immancabile “I LOVE YOU JESUS CHRIST” della Pt.2, mi affilate Holland, 1945 e capisco che ci siamo, c’è da aspettarsi il meglio da questo live. Non passa molto e mi accorgo che oltre ad essere un caposaldo che nessuno riuscirà mai a sradicare dalle mie origini musicali sono anche degli ottimi musicisti (Julian Koster saltella da una parte all’altra del palco cambiando uno strumento ogni 30 secondi). Arrivati a Two Headed Boy, che Mangum ci suona da solo, in piedi, il pubblico (compreso me) inizia a cantare a squarciagola senza farselo ripetere due volte. Dopo The Fool ecco la mina In the Aeroplane Over the Sea e che ve lo dico a fare! Tutti con le braccia in alto, qualcuno con le lacrime agli occhi e tutti (dico tutti) a sbraitare senza magari ricordare una sola parola. Non dilunghiamoci più del dovuto altrimenti non andiamo più avanti, una cosa sola, siete bellissimi

CHVRCHES – Lauren Mayberry è emozionata e si vede (è il primo festival così importante che passa dalla parte del palco, dice) ma dopo qualche incertezza iniziale in We Sink, convoglia tutta la tensione nelle sue capacità vocali e le mantiene fino alla fine. Ad aiutarla ci sono gli altri due membri della band che si occupano di dar forza al loro caratteristico sound di sintetizzatori e rimandi al synth-pop che fu. Il live non aggiunge molto a quello che è stato il loro ottimo disco d’esordio, salvo nel caso di Under The Tide, dove a cantare è Martin Doherty che, anche se manca della tenerezza insita di Lauren, porta a casa un buon risultato. I CHVRCHES mantengono quindi le promesse, e sono già sulla buona strada per poter aspirare ad un palco ancora più grande: hanno ottime carte in mano, sta a loro saperle sfruttare al meglio

Arcade Fire –  La platea è immensa e l’asticella delle aspettative è altissima. Appena entrano sul palco e attaccano a suonare ci si rende conto che siamo davanti a qualcosa di letteralmente grandioso. Gli Arcade Fire danno vita ad un vero e proprio spettacolo, che oltre alla musica ha dalla sua parta anche una componente visiva assolutamente accattivante: il palco diventa un’autentica festa di colori dove ogni pezzo mostra la forza della band lungo la loro ormai decennale carriera. Cominciano con Reflektor e da lì uniscono i loro quattro LP in un enorme caleidoscopio che fagocita tutto e tutti, proponendo al pubblico in estasi un’immersione totale nella loro estetica, saltellando fra i primi successi di Funeral – (Neighborhood #3), spazzando per The Suburbs – dell’album omonimo – fino alla nuova  Joan of Arch

Charles Bradley – La sorpresa, quello che può essere tranquillamente incoronato come performance più emotiva del festival: Charles debutta nel 2011 alla veneranda età di 63 anni e si impone come voce fortissima del soul, cantando in lacrime canzoni struggenti con una potenza da brividi, lanciandosi in strazianti lamenti da togliere il fiato

Moderat – che spingono subito sull’acceleratore grezzo di A New Error, andando così a dettare l’andazzo dell’ora successiva: forza nei bassi e perfezione formale alla tedesca. Con Apparat alla voce a cadenzare il ritmo di un’atmosfera dreamy il live prosegue compatto passando da momenti più intimi – Last Time – a quelle più ipnotiche di Rusty Nails. Senza colpo ferire riescono a tessere un ottimo live dove le due anime del trio si incastrano come perfetti ingranaggi, ma in fin dei conti non c’erano tanti dubbi a riguardo

https://www.youtube.com/watch?v=dXFAoR39Tec

Metronomy – Si comportano bene, promuovono il loro ultimo album Love Letters mantenendo la linea dell’atmosfera da cocktail e spiaggia, anche grazie ai vecchi successi ripescati da The English Riviera. Con una voce soave, il cantante Joseph Mount cadenza un live raffinato, poco incisivo senza però risultare noioso,  per far riposare un po’ le gambe

Jamie xx – Un’occasione vinta a metà. Da una parte abbiamo la testa dietro gli XX che quindi la sa lunga in fatto di musica, è abilissimo nel creare un set acquatico dove un momento prima, affiorano quasi eteree le sue bomba come “Sleep Sound” e il remix di “Bloom” dei Radiohead e un momento dopo si lascia andare a sincopate sparate 2-step garage senza mai concedersi troppo. D’altra parte il tutto è stato frenato forse da uno spazio troppo grande e da un acustica non perfetta; forse relegare quel caciarone Julio Bashmore in un’arena più piccola di Jamie xx è stata una mossa un po’ troppo azzardata. Uno scambio di stage avrebbe giovato a tutti e due

10354824_651452741576950_4825613128773905453_n

VENERDÌ

FKA Twigs – Contornata da una coltre di fumo e luci soffuse, si presenta sul palco a passi felpati e camminata da modella. In Tahliah (questo il suo vero nome) sembrano esserci due persone contrapposte: quando canta, si muove come una danzatrice del ventre e spazia dagli acuti di Ache ai caldi e bassi sussuri di Water Me, risultando incredibilmente sexy; quando invece ringrazia il pubblico tradisce la sua vera anima da ragazza emozionata, quasi da bambina. Ci dice che è la sua prima partecipazione ad un festival importante e ci parla anche del suo album in arrivo, proponendone una canzone inedita. Come dire, una ragazzetta che si muove come Mata Hari mentre alterna del trip-Hop slabbrato a percussioni quasi tribali è una scommessa che live poteva facilmente essere persa, ma non è questo il caso

Slowdive – Dopo vent’anni che non si vedevano più in giro, dopo una vita ad aspettare una loro reunion ecco che Neil Halstead e Rachel Goswell sono sotto i miei occhi e sotto quelli di qualche decina di migliaia di persone, ecco gli Slowdive.
La scaletta è da pelle d’oca, aprono con Deep Blue Day di Brian Eno e già ci capiamo. Ecco Slowdive, Avalyn e subito dopo Catch the Breeze arriva anche Crazy For You, non tardano Souvlaki Space Station e When the Sun Hits, chiudono con Golden Hair di Syd Barrett. Il sogno si avvera e Rachel è bellissima, l’impasto sonoro è degno del miglior shoegaze mai ascoltato, chi meglio di loro e dei MBV lo sa fare? Rispondete voi e mangiatevi le mani se non eravate presenti, o vedete di fare qualcosa per rimediare a questo peccato mortale

1601426_651452674910290_1821444473752768436_n

The War On Drugs –I primi riescono a portare sul palco l’atmosfera onirica che da nome al loro ultimo album. Il trittico voce-synth-batteria, si prende cura di cullare lo spettatore mentre le chitarre fanno il loro dovere melodico. Aggiungiamo poco riguardo una band, che già nell’album uscito quest’anno ha messo anima e corpo di tutta la loro costruzione sonora

Slint – E che fai, vai al Primavera Sound 2014 e non ti vedi gli Slint? I ragazzi prodigio ormai non sono più ragazzi, si “accontentano” di essere i precursori del post-rock e questa cosa deve essere chiara a tutti; lontani dagli spettatori, mai un “grazie, siamo orgogliosi di essere qui”, mai un “siete bellissimi”; non lasciano trasparire un minimo di emozione ed è così che deve andare perché poi dal vivo ti avvolgono, ti sbattono a terra e ti rialzano, fanno il cazzo che vogliono e lasciateci dire che se lo possono permettere alla stragrande

The National – Vediamo giusto un pezzetto, rimangono composti anche davanti ad una platea enorme, sapendo che possono tranquillamente concedersi di non strafare in quanto oramai status-symbol del rock degli ultimi anni. Formidabili come sempre, comunque. Lasciamo la band di Brooklyn sulle note di I Need My Girl

10390529_651474868241404_8783396283351108422_n

Darkside – Dopo aver convinto con il suo tour da solista, eravamo molto curiosi di vedere come si sarebbe comportato Nicolas Jaar in coppia con Dave Harrington. Il risultato è ottimo: mmersi in un’atmosfera buia ma non cupa, il duo dà vita ad un potente botta e risposta: gli arpeggi di Dave vengono liquefatti e dissolti da Nicolas e, mentre la voce del cileno si muove sinuosa sul mare elettronico creato dalle tastiere, Harrington irrompe con forza con il suo basso quasi a volergli rispondere

https://www.youtube.com/watch?v=TWL6z8AMan8

In un continuo di distorsioni sonore e stravolgimenti improvvisi, le canzoni del loro album servono quasi come accessori per creare un potente corpo ritmico che viene rimodellato, stirato e schiacciato per tutta la durata del live come se si fosse davanti ad un unico pezzo della durata di un’ora. Il tutto senza dimenticarsi degli spettatori a cui danno la possibilità, anzi il dovere, di ballare sulla base di bassi creata ad hoc per loro

SBTRKT – non colpisce come hanno fatto i Darkside. Il produttore inglese non riesce a trasmettere il suo carisma, facendo un live un po’ sciatto. La sonorità c’è, le canzoni ci sono, il volume anche, ma c’è qualcosa che manca; certo, ascoltare Wildfire dal vivo fa sempre più che piacere, eppure la versione live non le ha aggiunto nulla di che – la qualità non si mette in dubbio, ma non è stato incisivo come avrebbe dovuto/potuto essere

Jagwar Ma – Loro sono giovani, sono in due ed hanno a disposizione un repertorio di canzoni di cui eravamo sicuri al 100% che avrebbero funzionato molto bene live, in quanto il giusto mezzo fra psych-rock ed elettronica alla big beat anni ’90.  Così è stato, nonostante il frontman risulte essere fin troppo galvanizzato (quasi più del pubblico), e finisca per risultato un po’ indigesto, ai  limite dell’imbarazzante. La musica c’è, la presentazione un po’ meno

Laurent Garnier & Pional – Il passato e il futuro. I due si incrociano su due diverse piste da ballo in contemporanea, costringendo a fare aventi indietro. Ognuno gestisce la folla a modo proprio.  Laurent Garnier sa il fatto suo e mette su un set raffinato e da maestro come solo pochi come lui possono permettersi di fare. Pional invece si muove sull’onda delle ultime novità spaziando bene, seppur con qualche sbavatura, fra l’amico John Talabot e l’ultimo Four Tet.

 

SABATO

Godspeed You! Black Emperor –  Si scappa al palco ATP per i Godspeed You! Black Emperor; 5 brani (c’era da aspettarselo visto che in media i loro pezzi durano 20 minuti) in cui non si è sentito il minimo bisogno di accendere una sigaretta, di bere un sorso d’acqua, di schiumarsi una birra e chiacchierare con qualche amico. Poderosi. La band canadese ne sa parecchio e
come se fosse un flusso di coscienza musicale scaturito dalle influenze più disparate, convogliano in un post-rock da brividi e il viaggio è assicurato. Senza un minimo di scontatezza, si parte con Hope Drone (pezzo composto appositamente per l’introduzione dei loro live) per poi proseguire con Mladic, traccia d’apertura dell’ultimo capolavoro Allelujah! Don’t Bend! Ascend! e tra Gathering Storm, Moya e Behemoth veniamo sorpresi da un milione di cazzotti sul fegato alternati a carezze e lunghi viaggi per chissà quale meta tanto che a fine concerto non sono riuscito a parlare per almeno una mezz’ora

Blood Orange –  Chi si aspettava solo una placida atmosfera da Chamakay sarà rimasto deluso: qui c’è più groove di quello che i suoi dischi lasciavano presagire. Dev Hynes sa il fatto suo e se la cava durante le varie parti del live: c’è il momento più r&b, quello più aggressivo dove prende in mano la situazione e si lancia in abrasivi assoli di chitarra, e c’è ovviamente tutta la sfera tipicamente funky. Accompagnato dalle due cantanti alle quali lascia molto spazio, Dev dà vita ad un piccolo condensato ben riuscito di revival anni ’80

10373493_651452641576960_6619597309266525229_n

Mogwai – Loro sono oramai dei veterani e dall’alto dei loro quasi 19 anni di carriera, quello che fanno lo fanno davvero molto bene: le loro imponenti sinfonie di chitarre fragorose alternate a momenti di calma siderale sono marchio di fabbrica della band scozzese dagli albori (che rievocano con Ithica 27-9).  Un muro sonoro che esplode sulle note di I’m Jim Morrison, I’m Dead e che si placa sulle due o tre canzoni pescate dall’ultimo album

Il tutto grazie anche all’ottima acustica che riesce a circondare lo spettatore senza mai spaccagli i timpani (o quasi).  Ci concediamo il concerto seduti (le gambe pesano sempre di più)

Chromeo – Il duo canadese fatto di occhiali da sole e vocoder sa come coinvolgere la folla e riesce così a trasformare la platea in un enorme villaggio vacanze, dove il cazzeggio è la parola d’ordine. Il belloccio e sbruffone Dave 1 la fa da padrone portando avanti un sound leggero e funkettone. Si divertono e fanno divertire, smuovono la folla proponendo gli ultimi successi “Come Alive” e i vecchi come “Momma’s Boy” con l’autoironia  piaciona che ben gli si accosta.  Prima della chiusura andiamo a sentire qualche canzone dei Cut Copy che con la combo iniziale di “ We are Explorers” e “Take Me Over” sembrano quasi fare da continuo più composto del concerto dei Chromeo

Daniel Avery – Giovane e sulla piazza relativamente da poco, Daniel Avery convince a pieni voti. Dopo un intro con cui riscalda l’atmosfera, entra in campo il loop che ripete “Noise Flies High” e da lì non c’è più scampo per nessuno. Trasforma l’arena nel miglior club sotterraneo,  decollando quando accenna al suo album “Drone Logic” fino a planare verso una sentita ovazione finale. In quasi due ore di set incasella  senza mai perdere un colpo ritmi drone e deep-house che lasciano poco spazio alle decisioni, non si può far altro che continuare a ballare

DJ Coco – Detta il nome della chiusura del festival, dando sfogo a quanto di più becero e pop possa esserci in circolazione.  Un istituzione che spara all’ultimo cartucce da nostalgia del tipo “(You Gotta) Fight For Your Right (To Party)” dei “Beastie Boys” a ricordarci che in fondo il primavera altro non è che una gigantesca, tremendamente divertente festa. E che al di fuori delle lunghe camminate, del maltempo, del fango, della musica vista e della musica persa, l’importante rimane divertirsi (ed ascoltare grande musica, certo).

Hasta Luego Barcelona!

FOTO da GIULIA DI LILLO