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Uh lallà. È questa l’espressione che mi è venuta in mente, quando per la prima volta ho pensato all’unione fra il buon gusto (al limite dello snob) di Pitchfork, e la raffinatezza (al limite dello snob) della Francia e di Parigi. Ed è proprio questa l’espressione che ho esclamato fra me e me, non appena arrivato di fronte al luogo del festival.

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Ciao sono francese e faccio eleganti pure i mattatoi

Abituato ai carnai a cielo aperto e tenda al suolo dei grandi festival estivi, l’atmosfera del Pitchfork Music Festival si presenta da subito differente. Lo spazio destinato ad ospitare la 3 giorni di concerti è la Grande Halle de la Villette, un meraviglioso ed enorme mattatoio in ferro e vetro costruito a metà dell’800, oggi ottimamente riconvertito in sala da concerti. La struttura è poi immersa all’interno del grande Parc de la Villette, luogo perfetto per crogiolarsi nel sole di un atipico fine ottobre parigino nelle ore precedenti all’inizio dei concerti.

L’organizzazione è certosina, fatta apposta per mantenere un certo decoro e una certa forma: due palchi contrapposti che alternano i live con precisione svizzera, numero di biglietti venduti che permette una certa vivibilità anche nei casi di sold out (2 giorni su 3), controlli all’entrata stile aeroporto JFK il 12 settembre 2001 per evitare temerari tentativi di contrabbando, costo del sempre necessario sostentamento alcolico tarato in modo da farti sbronzare solo con l’esborso dell’equivalente del PIL annuale del Burkina Faso, sistema di entrata stile lasciate ogni speranza (di poter uscire e rientrare nell’area festival) non appena entrate. Non proprio comodo, ma alla resa dei conti funzionale.

Detto questo, entriamo nel vivo della 3 giorni, premettendo che il report non sarà esente da inesattezze, lacune, errori, grossolane dimenticanze che ben si addicono al report di qualunque festival vissuto in maniera degna, e alla luce del fatto che si, se non mi fossi recato a Parigi probabilmente ora sarei nella fortunata condizione di poter acquistare il Burkina Faso.

Giorno 1

È la giornata più tranquilla, come orari e come programmazione. La line up vede in scaletta molta qualità ma pochi episodi che richiedono movimento e prestanza fisica, con comunque qualche eccezione. Di questo ci si accorge anche analizzando età media e composizione della platea, fra cui si notano anche un buon numero di teste brizzolate e gente non proprio giovincella.

Ignominiosamente, il report inizierà proprio con una delle sovracitate lacune: causa motivi tecnico-logistici, mi perdo il live (ben commentato dai presenti) degli Ought, in apertura di serata. Mi toccherà recuperarli questo giovedì sera. Ad accogliermi all’entrata è quindi How to Dress Well, che con le sue atmosfere felpate è perfetto per accompagnarmi a passi incerti alla scoperta del nuovo luogo e dei suoi punti di interesse. Dopo di lui, ecco una prima, grande sorpresa: me la fanno i Notwist, che mettono sul palco tutti i loro 25 anni di professionismo, e che dopo una partenza abbastanza convenzionale virano verso territori elettronici e psichedelici in maniera via via più marcata, concludendo con una versione completamente ipnotica della loro Run Run Run.

Tirata su la bavetta dal lato della bocca, dall’altra parte della sala a partire sono i War On Drugs. Il pubblico si è misteriosamente moltiplicato, per una performance che, non me ne vogliano i loro grandi fan, risulta molto più piatta della precedente. Le chitarrine à la Dire Straits vanno bene per un po’, ma poi mi stufano, e fanno calare la mia attenzione. A risollevarla ci pensano i Mogwai, poco dopo, con i loro muri sonori che, molto probabilmente, avranno fatto tremare la Tour Eiffel nonostante gli svariati chilometri di distanza.

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“Ora la abbatto” BRRRAAAAAAM!

La loro musica dal vivo sembra veramente riuscire a dilatare il tempo, e ti ritrovi a fine performance completamente imbambolato, con la gente che sciama intorno a te in direzione del palco dove sta per salire sua maestà Jon Hopkins.
Finalmente con lui il festival, finora dimora perfetta di chi è uso godersi i concerti con aria guardinga e composta, si trasforma in un dancefloor: dopo una intro spaziale, parte subito con Breathe This Air, e da lì né lui né la folla si fermano più. A migliorare ulteriormente l’atmosfera ci pensano poi dei visual perfetti, studiati al millisecondo, che rendono l’esperienza veramente totalizzante.

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“A me gli occhi!”

Chiusura con Collider, e si è pronti all’esibizione di James Blake.
Ora, magari questa posizione risulterà piuttosto impopolare, ma ammetto che non mi è del tutto chiara la scelta della scaletta di quest’ultima parte della giornata. L’adrenalina lasciata dal live di Jon Hopkins infatti è tanta, e non si può dire che la musica di James Blake sia proprio la scelta migliore per mantenerla alta. Il concerto poi è assolutamente impeccabile, ci mancherebbe altro: Limit To You Love, Retrograde, The Wilhelm Scream, tutto al limite del commovente, certo è che se in fondo al concerto si deve scegliere se prendere la direzione del letto o dell’afterparty, è molto facile che si scelga la prima. Cullati dolcemente e del tutto soddisfatti.

Giorno 2

Già dalle premesse, il secondo giorno sembra essere molto diverso dal primo. Gruppi sicuramente più pop come Future Islands e Chvrches e in più la concomitanza di Halloween garantiscono il primo dei due sold out e oltre a questo l’età media è decisamente più bassa. Ad aprire la giornata la violenza delle Perfect Pussy: purtroppo l’orario più adatto ad un tè coi biscotti che alle spallate da parte di sconosciuti non rendono del tutto onore alla loro energica esibizione. A seguire D.D.Dumbo. Ammetto di non avere la minima idea di chi sia il cantante in questione, una breve ricerca mi fa scoprire le sue provenienze australiane, e un breve ascolto mi fa capire poco di dove vuole andare a parare. Solitario sul palco, l’impressione è che se li suoni (tutti gli strumenti) e se la canti un po’ troppo da sé.

È il turno di Son Lux, ma è anche il turno della fame, perché dopo di loro la scaletta si farà serratissima e purtroppo bisogna pur rinunciare a qualcosa. Per questo, al posto loro recensirò le patatine fritte più buone che abbia mai mangiato, croccanti al punto giusto ma dall’interno soffice e spumoso, e del pesce fritto, probabilmente baccalà, che invece è purtroppo presentato in scarsa quantità e non si dimostra all’altezza dell’accompagnamento tuberoso.
Rifocillato e in piena forma mi dirigo verso il palco dove stanno per iniziare i Future Islands. Sulle loro esibizioni live forse già saprete tutto, sulla carica scenica del cantante, sui suoi balletti divertenti, sul suo aspetto da zio un po’ matto, sulla resa ottima di tutte le loro canzoni. Bene, tutto confermato anche a questo giro. In più, essendo Halloween il gruppo non si fa scappare l’occasione di aggiungere un’ulteriore nota divertente alla loro esibizione, presentandosi sul palco con travestimenti a tema tipo strega per il bassista e trucco da vampiro per il cantante, trucco che cola inesorabile balletto dopo balletto.

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Bu!

Ne esco con una grande conferma sia delle loro qualità (già evidenti dopo il loro precedente live di Milano), sia della domanda “Ma come è possibile che abbiano fatto il grande salto solo adesso?”.

Senza essermi dato una risposta, passo ai , pop danese di buona qualità che tiene alto l’interesse ed che fa da introduzione perfetta per uno dei live più attesi della serata (e qui ricordiamo che è un report del tutto personale), ovvero quello dei Chvrches. La loro entrata è spettacolare, ai due lati tastiere e ammenicoli elettronici vari, al centro Lauren Mayberry che, truccata da teschio messicano, emerge come una Dea da fasci di luce che fanno sembrare il palco un tempio. Anche la scaletta funziona perfettamente, apre We Sink, poi in fila Lies, Gun, non c’è una canzone che live non sia una vera e propria bomba pop, comprese Tether e Under The Tide. The Mother We Share chiude alla grande.

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“Non avrai altra Dea all’infuori di me”

A raccogliere la pesante eredità dei Chvrches è St. Vincent, che non è però tipa da farsi impensierire, e si dimostra anzi una leonessa da palcoscenico, con la sua affascinante criniera viola. I suoni che tira fuori dalla sua chitarra sono a tratti inumani, a volte sembra accarezzarla per poi poco dopo stuprarla. Un’esibizione fra il sublime e l’inquietante.

Ultimi, attesi dalla folla più grande dei 3 giorni, i Belle And Sebastian. Salgono sul palco in grande forma, accompagnati da una sezione di archi a impreziosire gli arrangiamenti, attaccano con You’re Just a Baby ed è tutto, subito, un felice battimani. Con il loro sterminato repertorio è difficile accontentare tutti, e sono il primo a rimpiangere di non aver potuto ascoltare alcuni fra i miei pezzi preferiti, non inseriti in scaletta. Ma di sicuro non ci si può lamentare più di tanto, quando in un’ora si ascoltano dal vivo canzoni come Like Dylan In The movie, I Didn’t See It Coming, The Boys With Arab Strap, e la conclusiva Get Me Away From Here, I’m Dying. No?

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No.

 Giorno 3

È l’ultimo giorno, il festival inizia presto mentre io mi lascio ammaliare dalle bellezze di Parigi: forse anche troppo, e infatti arrivo con un clamoroso ritardo che mi fa dire “sarà per la prossima volta” a Jessy Lanza, Charlotte OC, Tobias Sesso Jr. Kwamie Liv e (ahimè) ai Movement. Quando finalmente riesco a varcare le porte della Grande Halle, sul palco salgono i Foxygen. Il loro concerto è un bel mischione di pezzi dei loro diversi album, ma il vero spettacolo lo regala il cantante, un ragazzo problematico che senza la possibilità di sfogarsi sul palco credo si sarebbe reso protagonista di una strage in un qualche liceo americano. Durante il concerto lo si vede sdraiarsi sul palco, rotolare, scalciare roba e fare altre cose che lo qualificano sia come un grande showman che come un sicuro sociopatico. Dopo di loro i Tune-Yards: ma qui mi accorgo che in tutto questo tempo non ho ancora visitato i meandri più nascosti della Grande Halle, pieni di mercatini, bancarelle ed enormi installazioni in cui giocare a Pong. Come resistere? E quindi saluto i Tune-Yards, che sento da lontano e su cui non mi sento quindi di esprimere alcun giudizio.

Superata finalmente la febbre da acquisto incauto, sul palco sale Jose Gonzalez, che ammetto di apprezzare su disco, ma molto meno dal vivo, se non altro nella dimensione di un grande festival. Probabilmente la situazione sarebbe molto diversa in un piccolo club, o in un teatro, ma qui le sue lullaby non sono proprio nel luogo adatto per farsi apprezzare. Almeno da me, dato che al contrario sotto al palco la quantità di gente rimane notevole dalla prima all’ultima canzone.
Cambio totale di situazione con i successivi Jungle, fenomeno inglese indicato fra i più interessanti nuovi nomi dell’anno. Rispetto al disco in versione live le loro canzoni virano molto più verso la disco e il funky, con tanto di coriste gospel sul palco. Alcune di queste canzoni, come The Heat, o Time, sono quasi irriconoscibili, per quanto cercano in maniera molto più esasperata rispetto al previsto di far divertire il pubblico, sfiorando a tratti l’effetto Bee Gees.

È poi il momento di Caribou e dopo aver fallito l’hipsterata più clamorosa della storia di ogni tempo (farmi i tagliare i capelli durante il loro live da un barbiere con banchetto allestito vista palco, barbiere che purtroppo mi dice che sta finendo l’ultimo taglio della serata proprio quando finalmente mi decido a farlo), mi accontento di vedere Dan Snaith e amici tornando nella folla dei comuni mortali, scelta che peraltro si rivela decisamente divertente: tante canzoni dal nuovo album, fra cui in apertura Our Love, e in conclusione una grande pioggia di palloncini colorati durante Can’t Do Without You, nella sua semplicità un momento che finisce dritto fra gli highlight del festival.

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Iiiiiiiiiiih! Palloncini.

Da qui in poi, la serata prende una piega e un orientamento molto più dance, prima con Four Tet, che presenta tanti pezzi del nuovo album (che live funzionano benissimo), e che dimostra di essere capace di smuovere anche chi del non ballare ne fa la sua filosofia di vita, poi con Jamie XX, autore di un set veramente eclettico, che passa da pezzi con bassi potentissimi ad altri che per poco (e per fortuna) non fanno partire i trenini: ma non è più il momento di ascoltare con raziocinio, meglio lasciarsi andare per concludere nel migliore dei modi questi 3 giorni di festival. Ed è quello che faccio, fra una birra e un’altra, finché un complicato treno Gare De Lyon – Porta Garibaldi non si incarica in 7 ore di riportarmi alla realtà. Salutando Parigi in attesa del Pitchfork Music Festival 2015.

Si ringrazia Vincent Arbelet per tutte le foto.