“Quanto stiamo andanto su questa tera? Quando stiamo facento su questa tera? Qual è il senso della vita? Che fine hanno fatto i Late of the Pier?” Sono i dubbi che mi attanagliano mentre faccio la mia entrata nel ripostiglio dove stasera suonano i Pianos Become the Teeth, la band che con l’ultimo album Keep You ha dato adito al mio disagio esistenziale (eheh) verso la fine del 2014. La situazione è più o meno chiara a tutti, ma non lo era tanto a me: età media 17 anni, ciuffo davanti agli occhi e capelli sporchi (lo ‘nzevato resta oggetto di studio socio-antropologico per tutto il resto della serata). Vabbe’, io sono qua per la musica, cerco di autoconvincermi. Ed è lì che parte In Utero dei Nirvana, che forse è l’unico disco che hanno nel locale perché l’hanno messo non solo all’inizio, ma pure tra un set e l’altro e pure alla fine. No apologies, altroché.

Prendo una birra. Mi chiedo: perché i gruppi emo/post-hardcore piacciono a tutti ma vanno a vederli solo i minorenni? Maledetti hipster, ve ne state a casa con le vostre recensioncine di “p4k” (ironia) e poi sulle transenne mi lasciate coi baffetti pre-pubertà e i capelli ‘nzevati del ciccione con la maglia dei Touché Amoré. Prendo un’altra birra. Intorno a me solo lattine di Carlsberg, e mi sento ancora più vecchia. Nel frattempo i Pianos sono comparsi al banchetto dei cd con dei capelli che non vengono lavati dalla prima ondata emo anni Novanta. Io guardo ma non oso avvicinarmi (#disagio), li osservo da lontano mentre i New Native si preparano a salire sul palco.

I New Native avranno al massimo 18 anni a testa; sul palco sono giustamente un po’ emozionati. Schitarrate rumorose e voce à la Jimmy Eat World, sembrano non portare nulla di nuovo al panorama musicale. Ma per ora glielo lasciamo fare, ché sono giovani. Nel frattempo il batterista dei Pianos (‘nzevato #1) osserva il concerto dal backstage (intendiamoci: una stanzetta accanto al palco condivisa da tutte e quattro le band) e mangia alette di pollo. La tipa accanto a me (ciuffetto colorato, camicia a scacchi) sta schiacciando una lattina di Carlsberg con le mani. Le esce il sangue e piuttosto che fare la persona normale e pulirsi, lei si osserva la ferita. È allora che ho l’illuminazione: siamo nel 2005. I ciuffi, i capelli, le magliette: questi sono gli emo che non hanno potuto fare gli emo tra il 2005 e il 2008. Maledetti.

New Native

Che siamo nel 2005 me lo conferma il batterista dei Talons, che si presenta sul palco in pantaloncini e maglia Adidas a tre strisce. 2005 pieno. I Talons sono molto diversi dalle altre tre band che salgono sul palco stasera: sono inglesi, sono in sei, hanno due violini, fanno una specie di post-rock strumentale che è quasi hardcore, ma riesce ad essere al tempo stesso elegantissimo. Hanno l’aria molto più middle class, da band che magari si è formata all’università di Oxford, chissà. I Talons li avevo già ascoltati in precedenza grazie ad un paio di playlist dell’etichetta Big Scary Monsters, ma non mi avevano colpito come l’hanno fatto stasera: animali da palcoscenico, sound potentissimo, impeccabile, con una presenza scenica quasi coreografica (che spiccava ancor di più grazie al palco minuscolo). L’ultimo album, New Topographics, è una bomba (permettetemi il termine ggiovane).

Talons

Talons

Scesi dal palco i Talons ho il tempo di correre in bagno. Torno imbracciando la macchina fotografica cosciente del fatto che quando ti vedono con una reflex ti fanno passare automaticamente in prima fila (perlomeno in Scozia), basta avere la faccia convinta. Salgono i Silver Snakes, che già dal nome non mi piacciono. In realtà fanno una specie di punk-rock che prende molto dal noise, e un paio di brani non sono male. Il batterista (un ibrido, 70% Matteo dei The Pills e 30% Ron Swanson) picchia fortissimo e temo per l’incolumità dei suoi lobi dotati di dilatatore, sembra gli stiano per volare via le orecchie. Nel backstage, Kyle Durfey assiste allo spettacolo con la faccia di uno che vuole mori’.
Tornano i Nirvana mentre aspettiamo i Pianos. Quattro band e tre ore e mezza di concerto sono veramente troppe, soprattutto se c’hai ‘n’età (io) e se hai lavorato tutto il giorno (io). Salgono sul palco. I New Native osservano avidamente il concerto dal backstage mentre è il loro turno con le alette di pollo, con lo sguardo di chi può solo imparare. Durfey è un gigante, e per i suoi movimenti e i suoi capelli un palco solo non basta.

Pianos Become the Teeth

Pianos Become the Teeth

Iniziano con Ripple Water Shine, brano d’apertura dell’ultimo album Keep You, e una cosa è chiara da subito: i Pianos sono una band rumorosa. Nonostante la svolta quasi post-rock dell’ultimo anno (anche se le influenze di base già c’erano da prima), a Durfey piace urlare come fa negli album precedenti. Il che fa felice chi è lì per il pogo, ma quasi dispiace per quelle atmosfere che rendono Keep You così caratteristico che purtroppo un po’ si perdono. Il secondo brano è April, la mia preferita dell’album, in cui la voce di Durfey diventa più melodiosa. È una canzone malinconica, dedicata al padre, ed è un bel momento per abbassare un po’ il volume. Dopodiché parte il pogo con i brani degli album precedenti. Durfey si affaccia sul pubblico, mi dà una microfonata sul naso (emozionante), duetta con qualcuno del pubblico. Ovviamente, e com’è normale che sia, il lato post-hardcore è quello con cui la band del Maryland si sente più a suo agio: lo si vede e lo si sente in brani come I’ll Get By e Hiding. Mi faccio trascinare dal pogo anche io, nonostante la macchina fotografica e la vecchiaia, ché tanto non mi dispiace. Non è il mio modo preferito di assistere a un concerto: io non sono di quelli che alzano il dito al cielo mentre urlano i testi, cercando di instaurare un certo rapporto con la band. Io sono quella in prima fila che fissa i musicisti con espressione da psicopatica e si concentra sulla musica. E piange quando c’è da piangere. Questo non è il concerto giusto per farlo, ma va bene così, penso. Dopo un’ora di gomitate in faccia e sudore condiviso, i Pianos ci salutano. Ovviamente non è vero. Tornano e suonano Say Nothing, che per chiudere il concerto è perfetta. Ed è lì che il pubblico si riunisce in contemplazione silenziosa, e vedo addirittura un paio di lacrime in giro. Il bello dei Pianos versione 2015: perfetti tanto per il pogo quanto per la lacrimuccia. Il dono intrinseco di far contenti tutti senza farci rendere conto della differenza, farlo in modo armonioso. La voce di Durfey non sarà perfetta, ma il resto c’è, e va più che bene così.
Il concerto finisce, i quattro concerti finiscono. Distrutta corro a prendere l’ultimo treno per tornare a casa. Penso che lamentarsi è bello, che sentirsi vecchi ai concerti anche se hai 24 anni è strano, non dovrebbe essere così. Ma ogni volta che mi chiedo se lo rifarei, in realtà non me lo chiedo nemmeno. Ovvio che lo rifarei.