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L’Europa ha l’impronunciabile Sziget, il Primavera, minchia il Glasto, il FIB per gli indi, il Lollapalooza da quest’anno, il Reading, il Pukkelpop e via dicendo tutti gli altri festival con decine, se non centinaia, di migliaia di persone, palchi giganteschi, artisti enormi e aree infinite in cui perdersi. Certo, sono festival che ti lasciano a bocca aperta sotto tantissimi punti di vista, ma spesso si finisce con lo stare fuori dalle grandi città per 4/5 giorni, vedere le performance a 200 metri di distanza e trovare headliner fuori luogo arrivati magari da due decenni precedenti. Poi ci sono quei festival di medie-grandi dimensioni come appunto Øya Festivalen che ti portano nel pieno centro della capitale (norvegese in questo caso) a due passi da musei, stazioni, e luoghi interessanti e che, oltre a portarti artisti internazionali di livello, ti permettono di vivere e visitare la città con un programma ad hoc in giro per i locali. È così che Martedì 11 Agosto è iniziato Øya Festivalen 2015 e noi eravamo lì, ad Oslo.

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Day 1

Prima di partire, come da rito sacro, ci siamo segnati i vari artisti da vedere, a che ora e in quale palco riuscendo a vederci praticamente tutti quelli che ci interessano – anche sì con le giuste pause senza dover correre dall’altra parte del parco per non perdere l’inizio di un live. Solo una cosa ci sembra strana: il primo giorno non ci sono importanti nomi internazionali e il programma è parecchio corto, con un orario serale dalle 18 alle 23. Scopriamo che questa giornata è dedicata per la maggiore agli artisti norvegesi e scandinavi (con qualche eccezione) e tutte le performance si svolgono in giro per la città, nei club e nei posti più fighi della capitale. Una mossa davvero interessante, che ovviamente non ci facciamo scappare finendo così ad assitere ad una manciata di artisti in 4 club differenti del centro città (tutti raggiunti a piedi). Riusciamo quindi a farci anche un giro per il centro di Oslo (cosa quasi impossibile in altri festival) scoprendo qualche artista scandinavo interessante come la giovane svedese Julia Adams (ascoltate il suo nu-rnb in Allt jag nånsin).

Day 2

Il secondo giorno è il primo del festival come lo intendiamo di solito. Arriviamo in questo grande parco in pieno centro città con tantissimi stand, 6 palchi (3 grandi all’aperto, 1 grande al coperto, 1 piccolo al coperto e una saletta per interviste e live acustici), un mare di verde e tante collinette in base alle quali sono stati posizionati i palchi: infatti i 3 palchi grandi all’aperto sono posti di fronte a una collinetta, in modo che anche la gente nelle ultime file possa godersi lo show senza grossi problemi.

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Nella foto qua sopra vedete il main stage, chiamato Amfiet, affiancato dal Vindfruen, di poco più piccolo; i due palchi si alternano di ora in ora con le performance degli artisti più importanti. Gli altri due palchi sono Sirkus e Hagen e distano circa 300 metri dai due principali. Restano l’HI-FI Klubben (per lo più dedicato all’elettronica) e Biblioteket (live acustici). In questi ultimi due si svolge anche qualche intervista. Ma ovviamente non è solo musica. Ci sono una ventina di stand del cibo, 4 macro-zone dedicate alle bevande, postazione fasciatoio, area giochi bambini, punti di raccolta rifiuti in cambio di soldi, wifi gratis, area relax con una finta spiaggetta, area vip con 2 piscine, decine di tavoli dove mangiare, chiosco delle info, silent disco di TIDAL, beer pong di Marshall con premi… c’è veramente qualsiasi cosa, tutta funzionante e tutto perfettamente organizzato.

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Il primo giorno è devastante: nel giro di qualche ora riusciamo ad assistere alle performance di: Razika, The SwitchYears & Years, Belle & Sebastian, Courtney Barnett, The War On Drugs, Caribou Chic. È un continuo crescendo la giornata, infatti ci troviamo a dire “miglior live della giornata” praticamente ogni volta che una band/un arista termina di suonare.
Razika, The Switch e Years & Years fanno il loro sporco lavoro di aprire i palchi per la prima volta. Belle & Sebastian ci portano indietro di 10-15 anni con uno Stuart Murdoch in splendida forma che balla e intrattiene il pubblico (portando addirittura una decina di persone sul palco). Courtney Barnett è il primo e unico live prepotente della giornata: la giovane australiana, fresca del primo album, sembra già una veterana e senza vergogna tiene testa alle 2/3000 persone di fronte a lei. The War On Drugs invece iniziano a far emozionare veramente qualcuno, in particolare 2-3 giovani ragazzi tra le prime file che cantano ogni singolo pezzo della band. Caribou purtroppo riusciamo ad assistere per metà esibizione perché lo stomaco ha fame e tra mezz’oretta inizierà lo show degli Chic, capitanati da Nile Rodgers.

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Sì, perché questo è lo show che non puoi perdere per nessuno motivo al mondo, perché aldilà del nuovo singolo/album ci sono 40 anni di storia della musica disco. Un’ora e mezza di medley passando dai loro pezzi più famosi (Soup For One, Good Times, Le freak) alle maggiori produzione di Rodgers (Notorius dei Duran Duran, Let’s Dance di Bowie e Like A Virgin di Madonna). Impossibile non ballare, non cantare e non emozionarsi: senza tempo.

Concludiamo la giornata (23.30) al Blå, un bel club nel quartiere di Grünerløkka. Perché proprio lì e non al parco del festival? Perché ancora una volta l’organizzazione non vuole farti passare la vita in un parco, ma vuole che tu vada in giro a scoprire la città e i suoi club più belli o famosi che siano. Ed è così finiamo a pogare duro insieme a qualche 50enne nostalgico del punk con la musica degli Iceage (solita esibizione con quei 4-5 pezzi rovinati dal duo batterista+cantante che fanno un po’ quel cazzo che vogliono, ma vabhé promossi pure loro).

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Day 3

Il terzo giorno decidiamo di iniziarlo nel migliore dei modi: “Run them jewels fast, run them, run them jewels fast, run them, run them, r-run them, r-run them, run them FUCK THE SLOW MO”. Che roba cervi, ho ancora la pelle d’oca e il petto che vibra per la potenza del live del duo formato da Killer Mike e El-P. Puoi anche non riuscire a star dietro al cantato che comunque questo ti risucchia e ti fa volare altissimo. Poderosi.
Continuiamo con i Bad Religion i quali occupano uno slot poco interessante per cui scegliamo proprio loro tra le 3 proposte perché non vogliamo addormentarci dopo aver sentito i Run The Jewels. Ed è così che ci troviamo davanti ad un scelta un po’ difficile perché nello stesso momento suonano Ride e Tyler The Creator. Scegliamo il rapper 24enne e proprio come immaginavamo il pubblico si divide in due grosse parti: gli under 30 tutti da Tyler, gli over 30 tutti a sentire i Ride. Come è (più o meno) giusto che sia. Tyler è sotto un treno, respira una dose di Ventolin (o simili), dice di essere ko per le poche ore di sonno e i lunghi viaggi, ma nonostante ciò l’esibizione in sé non ha difetti. Il rap è violento dalla prima all’ultima rima, gli intermezzi simpatici gli permettono di riprendere fiato e bere qualche Red Bull (per poi vomitarla). Tutto giusto se non per la scaletta che poteva essere leggermente migliorata, ma questi sono gusti.

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Come ieri Caribou, oggi tocca a John Father Misty essere tagliato a metà per poter cenare. Ci dispiace, perché quei 20 minuti di live sono stati molto intesi: J. Tillman sul palco è una bomba che esplode ogni 20 secondi con un’eleganza estrema; avremmo assistito volentieri all’intera esibizione, ma poco dopo avrebbero suonato Florence + The Machine e Flying Lotus. Partiamo dalla prima. Ci appostiamo sotto al palco un pochino scettici e un po’ prevenuti: sarà la solita roba pop mainstream che piace a tutti e fa cantare tutti e nulla di più? Sì, ma c’è anche altro. Di fronte abbiamo un’artista di grosso taglio che non si spreca e non si vende, sfornando una performance coi fiocchi sia a livello artistico sia a livello musicale che emoziona un po’ tutti, chi più chi meno. È Shake It Out il pezzo che manda ko diverse persone che iniziano a piangere e a cantare il coro univocamente sotto richiesta della stessa Florence. Brava bravissima (ma i tuoi cd non li comprerò mai).

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Terminiamo il tutto con Flying Lotus. Il palco si presenta con due tendoni posti rispettivamente dietro e davanti alla console. FlyLo si vede a malapena, nascosto dentro ad una maschera. Si accendono i visual puntati sui due tendoni e inizia la musica. Bhé, definirla musica è complimento. Si sentono solo i bassi, i bassoni tremendi. E si sentono pure male. Tutto l’impianto gratta. I tappi nelle orecchie servono a un cazzo. Non sembra un problema tecnico perché FlyLo suona tranquillamente. Sembra più un settaggio dei volumi voluto appositamente così. Io personalmente mi pento di non essere rimasto a sentire John Father Misty. Potevo tranquillamente cenare ora.

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Day 4

Il venerdì è il penultimo giorno, dove il grande pubblico non vede l’ora di ascoltare il loro compaesano Beck, sì perché in Norvegia viene considerato norvegese, avendo la madre con origini norvegesi. La prima band che vediamo sono i Future Islands che vabhé, chi li ha mai visti sa che le loro performance sono al limite del pianto: Samuel è una macchina da guerra che vive il live come se fosse l’ultimo, con espressioni, cantati e movenze fuori da ogni logica umana. Curiosi dell’enorme successo di Tuesday (si ringrazia Drake) facciamo un giro anche da ILOVEMAKONNEN che con il suo fresco rap ci fa passare una tranquilla oretta ad ondeggiare il capo avanti e indietro. Altrettanto curiosi siamo mentre ci dirigiamo verso l’Hi-Fi Klubben dove si sta preparando SOPHIE: artista ambiguo che, insieme a quelli dell’etichetta PC MUSIC, sta portando in alto un nuovo genere musicale. L’esibizione è giustissia, la gente balla e si scatena, non c’è una pausa e lo show di visual/luci è ottimo.

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In tanti altri festival sarebbero stati headliner, ma qua li troviamo alle 19.30: gli Alt-J preparano nel migliore dei modi il pubblico a Beck. Lo show si divide abbastanza equamente tra nuovo e vecchio album, con il vecchio che ovviamente la sfida dell’applausometro. Il pubblico canta tutti i vecchi pezzi fottesegando abbastanza quelli nuovi, tranne la tanto acclamata Left Hand Free. Thom Green alla batteria è sempre e comunque uno spasso da vedere con quei cazzo di campanacci e quella pelle del rullante tirata fino quasi a lacerarsi. E ora welcome back, Beck.

Senza dubbio questa è la parte più frustrante e triste da scrivere. Sì, perché Beck delude e neanche poco. L’inizio è scoppiettante con Devil’s Haircut seguita Black Tambourine e per la prima mezz’oretta sembra tutto ok, ma col passare dei minuti la performance perde qualità, omogeneità, prestazione, un po’ tutto. Si percorre la carriera di Beck dal ’99 in poi (da Sexx Laws fino a Blue Moon, passando per Lost Cause e E-Pro). Sexx Laws appunto è il punto di non ritorno, dove Beck dimostra di non poterne più, di essere quasi stufo di suonarla (e suonare in generale) e di divertirsi poco. La band finge di essere morta, le luci si abbassano, loro spariscono e dopo 5-6 minuti tornano. Quello che viene dopo è pura follia: Beck improvvisa filastrocche acapella accompagnate da intermezzi di suoi brani totalmente a caso; si ferma ogni tanto perché la filastrocca non gli piace e ne ricomincia una nuova. Il tutto senza un senso logico. È da minuti diversi minuti che la gente lascia il prato e alla fine dell’esibizione notiamo che una fetta di prato, sempre piena durante gli headliner (e non solo), è vuota. È una bocciatura unanime, confermata anche ai bagni pubblici dove un folle ha il coraggio di dire “Best show ever“, venendo zittito all’istante da più persone.

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Day 5

L’ultimo giorno è più incentrato sulle band scandinave, ma gli artisti internazionali non mancano, anzi. Appena dopo mezzogiorno al mainstage c’è Natalie Prass. 45 minuti di live impeccabili, conditi però da un pubblico poco presente sia a livello numerico che a livello di calore, ma ci sta: sono solo le 14.30 e sicuramente non si può pogare con Bird Of Prey. Seguono le gemelle Ibeyi, due ragazze simpatiche e davvero brave tecnicamente che tra tastiere, campionatori, Cajón e Batá intrattengo e deliziano tutto il pubblico di fronte a loro.
Ci spostiamo quindi in un altro mondo con Pharmakon, a.k.a. Margaret Chardiet, che sfodera un’esibizione da pelle d’oca (nonostante io personalmente non l’adori su disco). Qualsiasi artista dovrebbe imparare dalla su live: salta la transenna, canta in faccia alla gente, corre in mezzo al pubblico, si incazza, suda, muove i suoi mille cursori e lascia che i suoi loop malefici finiscano nell’infinito del buio di cui sono fatti. DE-VA-STAN-TE.

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Prima dello show di chiusura al parco ci facciamo pure un giro da Vince Staples, classe ’93, che con il suo rap ci ha fatto godere molto quest’anno con il suo Summertime ’06. Decisa, cattiva e piena di passione anche la sua esibizione di fronte ad un pubblico giovane che canta tutti i suoi pezzi e si diverte a vedere ragazzo rappare. Chiudiamo quindi il nostro festival con Susanne Sundfør, beniamina di tutta la Norvegia, conosciuta al grande pubblico grazie anche alle diverse collaborazioni con Röyskopp e M83. Il suo è un synth-art-electro-baroque pop che piace un po’ a tutti e anche noi apprezziamo, ma fino ad un certo punto, ossia quando decidiamo di spostarci verso Thåström, ex leader di Ebba Grön and Imperiet, oggi artista solista apprezzato in tutta la Scandinavia e non solo. È un’esibizione toccante. Ogni pezzo sembra la colonna sonora per la perfetta chiusura del festival. A quasi 60 anni da lezioni di musica a chiunque e nonostante non conoscessimo, in tutta onestà, l’esistenza di questo artista rimaniamo a bocca aperta di fronte a un performance del genere. 

Siamo devastati dalla malinconia di fine-festival e dalla musica di Thåström fino a quando non ci viene in mente che ci manca Dan Deacon da sentire, porca troia. Ci dirigiamo quindi al John Dee, locale in pieno centro ad Oslo (solito discorso che gli ultimi concerti si svolgono in giro per la città). Un fuorilegge cabarettista matto da legare con la passione per i synth. Difficile descriverlo con altre parole. Dan Deacon ci fa passare i 60 minuti più divertenti degli ultimi giorni con giochi/balli di gruppo, pogate elettroniche e battute ironiche un po’ verso chiunque. Geniale.

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Si chiude così definitivamente l’edizione 2015 dell’Øya Festivalen: un festival per tutti i palati e per tutte le età che mischia in modo intelligente la musica internazionale con quella locale e che vuole promuovere artisti e band norvegesi (e scandinavi) al pubblico. È infatti Music Norway il principale sponsor del festival, che oltre a metterci il denaro, sfrutta l’evento come vetrina per gli artisti che ha sotto contratto.

Vi lasciamo con una galleria piena di foto di esibizione e del festival in generale, scattate tutte da Andrea Pelizzardi.