Il Mutations Festival è solo al primo anno di vita ed è già diventato una piccola istituzione nel (ricchissimo) panorama musicale e culturale di Brighton. Brighton, poi, merita una nota a parte: non lontana da Londra ma con una scena underground che poco ha da invidiare alla capitale, la città pullula di locali, anche piccolissimi e nascosti in vicoli introvabili, che favoriscono la nascita di una scena che vive di vita propria.

Ed è proprio grazie a una decina di questi locali che prende vita il Mutations Festival, organizzato dall’etichetta/promoter One Inch Badge: non più corse tra un palco e l’altro, quindi, ma tra una venue e l’altra, spesso nemmeno troppo vicine tra loro. Nonostante qualche piccola pecca, alla sua prima prova il Mutations è già un festival ben riuscito e dal carattere spiccato.
La line up è variegata ma coerente, più cantautoriale il primo giorno e più rumorosa il secondo. Grande attenzione è stata data all’organizzazione dei set, calibrando i palchi per genere e facendo sì che le coincidenze dei concerti pomeridiani non facessero arrabbiare nessuno (personalmente, gli unici che mi sono persa con dispiacere sono stati i Blaenavon, che suonavano allo stesso orario degli Ought); ottima anche la scelta di concentrare tutto il pubblico in un solo posto per i set serali, evitando decisioni sofferte. Buona anche la tempistica, con ritardi massimi di quindici minuti e uno staff molto efficiente. Il festival ospita un massimo di mille persone – il numero purtroppo non è stato raggiunto forse perché l’evento non è stato pubblicizzato benissimo, ma le presenze sono state maggiori il secondo giorno.

Positivo l’aspetto logistico, ma quello musicale ancora di più. Sabato 28 novembre è stato inaugurato con il dream pop/shoegaze a colpo sicuro dei Widowspeak, seguito dalla grande presenza scenica e vocale di Willis Earl Beal, che è salito sul palco con un iPod azzurro ed ha iniziato a cantare manco fosse al karaoke, urlando frasi semi-sconnesse tra un pezzo e l’altro su quanto fosse un cliché di artista e su quanto odiasse la sua stessa musica (ironico? polemico? ubriaco? nel dubbio imbarazzante e quindi è un no, nonostante la voce bellissima). Dal locale-buco si passa ad uno di media grandezza, e in attesa di Chelsea Wolfe le tre band che si susseguono sul palco fanno la loro porca figura: i Nature Channel con il loro punk/post-hardcore melodico e le doppie voci, i Chastity con un post-hc più cupo e un frontman dal carisma interessante che è sceso a cantare tra il pubblico, e infine gli imponenti Written in Waters, una band interessantissima grazie ai muri di suono post-rock e una voce soprano, poliedrica, forse un tantino eccessiva a tratti – quando la strumentazione avrebbe potuto parlare da sé.

Chelsea Wolfe

Chelsea Wolfe

Chelsea Wolfe è la prima headliner della serata, e il suo set è ammaliante quanto la sua persona: la band che la segue è quasi impeccabile ma è Chelsea ad orchestrare i particolari dell’esibizione; è un’esibizione intensa e magnificente, dovuta anche al minimalismo in scena (pochi movimenti, nessuna chiacchiera) che ben si abbina alle atmosfere dell’ultimo album, Abyss.

Josh T Pearson

Josh T. Pearson

In serata ci si sposta nella bellissima All Saints Church, il posto perfetto per ospitare i due cantautori che chiuderanno la prima giornata del festival. Josh T. Pearson ha attirato moltissime persone al suo concerto, e forse in pochi lo riconosceranno: tagliato il barbone, ora è dedito ai completini bianchi da cowboy, ha riabbracciato le sue origini texane, gli stivaletti e la sciarpetta con la bandiera americana al collo. Ah, e ovviamente croci ovunque. Serio? Troll? Forse 60-40, sicuramente c’è un po’ di ironia in questa nuova versione di se stesso, e il motivo lo spiega subito: una collaborazione con Calvin LeBaron per reinterpretare vecchi canti religiosi (tra questi hanno anche incluso una cover di I Will Follow Him direttamente da Sister Act!), e va detto che Josh è un animale da palco, simpaticissimo (forse anche troppo, tre minuti di chiacchiere in più sono un brano in meno) ma anche perfezionista, e con una voce che non sbaglia mai. La location, poi, è perfetta.

Christopher Owens

Christopher Owens

Ben altro paio di maniche è Christopher Owens, ex leader dei Girls, il cui ultimo album è uscito qualche mese fa. Lungi dall’essere tecnicamente perfetta, l’esibizione di Owens è intima, sofferta, le mani sono tremanti e sbagliano, lasciandolo interdetto. Il tutto diventa emozionale per il pubblico e per lui stesso, che le storie raccontate da brani come Broken Dreams Club sembra riviverle tutte nel momento. Empatia e lacrimoni chiudono la serata di sabato 28, e Owens si scioglie con una cover (“I wanna play a cover too!”) del brano American Pie.

Domenica 29 novembre si apre con una band locale, i Wild Cat Strike, che fanno un post-rock promettente accompagnato da una voce che ricorda quella degli Electric President. Poi si corre per arrivare al Green Door Store, un posto nascosto sotto un altro posto (!) che secondo Google Maps (sorpresa!) non esiste (!) e infatti dopo mezz’ora di ricerca mi ritrovo giusto in tempo per beccare i Best Friends, che sono giovani e forse hanno ancora un po’ di strada da fare prima di trovare un’identità specifica. Non dispiacciono come apripista per gli Ought, però.

Ought

Ought

Gli Ought sono anch’essi giovani, ma hanno una personalità e una classe invidiabili. Il set è coinvolgente, il basso è prepotente e la voce del frontman dal vivo non si tradisce (Tim Darcy è pure simpatico e sorridente, un po’ inaspettato da una band post-punk, eheh). Qui è nato un grande amore perché il nuovo album Sun Coming Down è bellissimo e dal vivo suona benissimo, in particolare Passionate Turn e Beautiful Blue Sky.

Blanck Mass

Blanck Mass

Altro giro, altra corsa, andiamo a spaccarci i timpani con Blanck Mass. Sotto cassa tutto passa (per i più pazzerelly), invece con Blanck Mass sotto cassa tutti i demoni vengono a prenderti per mano, e inizi a star male pure per quella cosa imbarazzante che hai detto otto anni fa. Il set è asfissiante, un’ora intera di respiri trattenuti, e dopo fa un po’ male riprendersi.

OM

OM

Ovviamente non un attimo di respiro che arrivano gli OM, una band dalla tecnica magistrale con un seguito ben solido, una band che definire metal è estremamente riduttivo: tutto ruota intorno al basso di Al Cisneros, accompagnato da una batteria potentissima e dall’accompagnamento drone, psichedelico e vocale di Robert Lowe (Lichens).

Lightning Bolt

Lightning Bolt

Tutto fortissimo in casa Lightning Bolt, altra band gigante per il primo dei due set serali. Impianto esagerato, volumi altissimi, pogo violento, un batterista la cui velocità a suonare ne rende i movimenti impercettibili ad occhio nudo. I Lightning Bolt non hanno paura di esagerare, ma io (coi miei lividi) non so se poi concordo con loro.

Metz

Metz

La serata si chiude con i tanto attesi Metz che, forse per non sfigurare davanti a chi li ha preceduti sul palco, alzano di tanto (troppo?) i volumi: il risultato favorisce il pogo e lo scapocciamento, ma rende difficile distinguere gli strumenti (inclusa la voce) gli uni dagli altri. Di certo un bel concerto, però, solo diverso da come vi aspettereste i Metz dopo averli ascoltati su disco.

Finisce così il Mutations Festival, senza un attimo di tregua. Emozioni al sabato e sincopi alla domenica. E poi il lunedì in ufficio a fingere di essere persone normali. Ci si rivede l’anno prossimo?

Tutte le foto sono di Claudia Viggiano