Una delle tracce più famose degli LCD Soundsystem reca un titolo che è emblematico di un sistema, di un modus operandi: You Wanted A Hit. Il monolitico colosso dell’industria discografica esige successi in catena di montaggio e, lì dove se ne sforni uno che raggiunga portata massiva, ecco far capolino il tenebroso risvolto della medaglia, l’eventualità che quell’unico singolo rappresenti al contempo una condanna a morte, il congelamento dello stile e delle sonorità in qualcosa che sempre si attenderà identico o, rispetto al quale, paragone non potrà sussistere.

Kai Campos e Dominic Maker debuttano sulla scena britannica nel 2008, incoronati dalla critica come delfini della post-dubstep e downtempo, abili artigiani di una produzione delicata, elegantemente strutturata, ma carica di nervature elettroniche che ne sono battito pulsante. Nel 2013, giunti al secondo album (il mirabile Cold Spring Fault Less Youth), ne è naturalmente emersa quella che sarebbe diventata una delle tracce più suonate / remixate / downloadate del pianeta, Made To Stray, contributo ulteriore a rendere i Mount Kimbie autorevoli rappresentanti del genere, nell’Olimpo degli indimenticabili ed immediatamente riconoscibili alla sola menzione del brano.

Quattro anni trascorrono e il presente bussa alla porta, l’amletico quesito non può che prender forma: parafrasando il nome di un celeberrimo disco dei Club Dogo, il duo non sarà più quello di Made To Stray? Cosa ci attende oltre la siepe, saranno capaci di salpare l’oceano di melodie sintetizzate, proliferate ad opera di artisti elettronici sempre più numerosi e fra loro simili, meteore destinate allo spegnimento per assimilazione? , ad occhi chiusi, capitani di una nuova opera sorprendente, timone che vira verso sperimentazioni innovative, accenti new wave e colori più scuri delle scintillanti luci di un dancefloor.

Love What Survives introduce alla maturità raggiunta con la terza opera in studio, sempre ragionata al dettaglio, ma piena nella sua risonanza avvolgente, tinta d’esotismo tribale incrociato a potenti bassi krautrock. La resa dal vivo di un album così ben riuscito, accolto dall’abbraccio del rivedere un vecchio amico dopo tanto tempo trovandolo in forma – quasi ringiovanito, si attende spettacolare, richiestissima da un pubblico che raggiunge il sold out nell’unica data italiana del tour al Circolo Magnolia di Milano. Puntuale, l’esibizione comincia alle 22:30, mentre qualche fila di presenti ancora si staglia all’esterno della venue, date le difficoltà d’ingresso di una platea forse inaspettata nei quantitativi, impedita dalla burocrazia di rito (sottoscrizione della tessera-ritiro e presentazione dei biglietti non meglio specificati nelle modalità-coda automaticamente sviluppatasi), all’ascolto dei primi brani.

Sul palco, in quattro prendono posizione a batteria, basso, tastiere, synth pad e chitarra elettrica, preludio di una performance in cui di computerizzato v’è solo il ricordo di quanto registrato su disco: la scaletta è completamente suonata, a compiere un teletrasporto in quei locali in cui l’indie electro/rock si ballava agitandosi e non solo annuendo col capo. Il live è entusiasmante sotto ogni profilo, dalla sincera interazione con il pubblico (più volte ringraziato per il calore espresso con timide prove di frasi italiane standardizzate), alla padronanza dello stage, dominato da una band che si muove, alterna e si alterna agli strumenti, dimostrando quanto di elaborato ci sia in ogni traccia, elementi acustici complessi e sfumati, costruiti ad arte per brillare in vere e proprie stelle sonore.

L’incipit è affidato all’opening track dell’ultimo lavoro, la galattica Four Years And One Day, posta a far tuonare vibrazioni cupe e distorte, lasciando incedere, in sequenza, capolavori del sintetizzatore in chiave anni Ottanta (Audition, Delta), frammenti di una giungla urbana cresciuta sulle mura del Magnolia (Marylin – intonata magistralmente), ed estratti del disco precedente che, eseguiti dal vivo, assumono una portata emozionale viscerale, toccanti tanto per bellezza estetica, quanto per commozione affettiva (Home Recording, So Many Times, So Many WaysBreak Well – la cui coda avrebbe fatto tribolare anche il più coriaceo degli animi in sala). L’assenza fisica di James Blake e King Krule, guest stars nelle collaborazioni più recenti, è colmata dall’abilità di creare un flusso melodico in cui il pubblico è assorto e concentrato, rapito dai suoi interpreti, la cui esperienza decennale è evidente e garanzia qualitativa del concerto tutto. Unica pecca a macchiare un quadro altrimenti perfetto è stata l’equalizzazione dei volumi, eccessivamente forzata a compromettere la pulizia del suono, troppo forte e troppo alto, stordente rispetto a quella che realmente voleva -doveva- essere la linea acustica percepita.

Come per il dessert a concludere un menù pregiato, analogamente per la hit più rinomata (Made To Stray), la fame brama e pretende, e l’accento deve esser posto sulla scelta di suonarla come ultima nell’encore, ad accontentare il furor di popolo, così che l’attenzione in corso d’opera non venisse dispersa o smorzata, ma alimentata in favore sia dell’ascoltatore più occasionale -accorso perché fan d’ultim’ora- sia di quello più fedele, ricompensato dell’aver compreso e supportato quelle nuove sperimentazioni che non rinnegano del tutto lo stile degli esordi. Un live divertente, appassionato e preciso completa le aspettative nutrite, evoluzione new wave di una produzione che, strizzando l’occhio al passato, veleggia sicura nella modernità del presente.