micah p

Photo Credit: Lucio Carbonelli

Mentre dall’altra parte della città, in Piazza del Plebiscito, il trio vincitore dell’ultima edizione del Festival Di Sanremo – sì, Il Volo – si apprestava a esibirsi davanti a circa trentamila persone, nel centro storico di Napoli stava per andare in scena uno spettacolo emozionante, intenso e intimo: Micah P. Hinson, dopo sette anni, è tornato a Napoli accompagnato dalla sua vecchia chitarra e dalla solita voglia di raccontare la sua vita.

La cornice è rappresentata dal Riot Studio, che sorge nel cuore della città, in Via S. Biagio dei Librai, il decumano inferiore – Spaccanapoli, per intenderci – tra monumenti, chiese ed edifici storici. Ed è proprio in uno di questi edifici, Palazzo Marigliano, costruito agli inizi del ‘500 – trecento anni prima che venisse inventata la chitarra – che noi, pochi fortunati, ci siamo ritrovati ad ammirare quello che con molta probabilità potrebbe essere definito come uno dei più romantici e dannati cantautori folk contemporanei.

La scalinata di Palazzo Marigliano, suggestiva e imponente, illuminata soltanto da candele, porta dritti al terrazzo del Riot, dove Micah aveva già iniziato a esibirsi al momento del mio arrivo (Napoli sarà anche una città unica per patrimonio artistico/culturale, ma anche in fatto di traffico non scherza). Contrariamente alle mie aspettative, il terrazzo era colmo di gente, seduta per terra o in piedi lateralmente, in un religioso silenzio che a tratti stonava con l’atmosfera amichevole e spensierata del posto. Micah era lì, in fondo, con in braccio la sua storica chitarra, in bocca la sua immancabile sigaretta e accanto una bottiglia di succo di frutta, che ha poi di tanto in tanto sorseggiato durante il live: stava raccontando di quel maledetto incidente stradale in Spagna, che quasi gli costò la vita. Solo un brutto ricordo, per fortuna. Neanche il tempo di ritagliarmi uno spazio tra tutte quelle persone, che ha attaccato con i primi due brani. Seven Horses Seen e 2’s and 3’s, entrambi contenuti in Micah P. Hinson And The Pioneer Saboteurs (2010) ed entrambi cantati con quel suo inconfondibile tono di voce, tanto stonato quanto espressivo.

Subito dopo aver raccontato della stretta relazione con la sua Seagull, che suona da ormai otto anni e alla quale ha tra l’altro dedicato un brano (This Old Guitar, storico pezzo di John Denver) sul finire del concerto, prende il via il dolcissimo e unico arpeggio di Beneath The Rose, contenuto nel debut Micah P. Hinson and The Gospel of Progress. Si tratta forse del brano più conosciuto (assieme a Patience, richiesto più volte letteralmente a gran voce dal pubblico) del cantautore texano; e per quanto esso suoni magicamente su disco, bisogna dire che dal vivo, in quella situazione, in quell’atmosfera così calda e profonda, l’effetto sia ancora più coinvolgente e vigoroso.

Il concerto è proseguito in maniera veramente impeccabile, si sono susseguite At Last, Our Promises e Drift Off To Sleep, non prima di avermi lasciato leggermente interdetto (e divertito) per aver suonato solamente due accordi di A Dream Of Her – il mio brano preferito – interrotto per problemi tecnici e “sostituito” con You Lost Sight On Me, anch’essa interrotta perché “Oh f**k, I already played this!”, suscitando grande ilarità tra noi spettatori.
A parte questa piccola parentesi, Micah ha proseguito con The Surrender e Yourself Asleep Again, anche quest’ultimo uno dei suoi brani più celebri: suonato e cantato con un’intensità unica, uno strumming prima dolce e delicato, poi violento ed energico, proprio come la sua voce. A questo punto, sul finire del concerto, ha proposto i primi due brani presenti nell’ultimo disco, Micah P. Hinson and The Nothing: A Million Light Years e God Is Good, due canzoni estremamente introspettive e raffinate, entrambe rallentate e cantate con voce tremante, quasi insicura.
Il live si è concluso – o meglio, avrebbe dovuto concludersi – con la succitata This Old Guitar di John Denver. Micah cantava This old guitar taught me to sing a love song /It showed me how to laugh and how to cry /It introduced me to some friends of mine /And brightened up some days /It helped me make it through some lonely nights /Oh, what a friend to have on a cold and lonely night ed era evidente che queste parole fossero sue più che mai. Perché quella chitarra è per lui davvero un’intima amica, che, nel bene o nel male, l’ha accompagnato e lo accompagnerà per numerose avventure.

Al pubblico però non bastava: è stato un live talmente vivo e pregno di emozioni che un’encore era d’obbligo. E così Micah dopo aver posato la chitarra ha detto “If you want, I’ll play few more songs“: era tutto ciò che aspettavamo. Applauso del pubblico, di nuovo la chitarra in braccio e dopo un breve excursus sul significato del 4 luglio per un Americano, ha suonato tre storiche e indimenticabili cover: Can’t Help Falling in Love (scritta da George Weiss, Hugo Peretti e Luigi Creatore e resa famosa da Elvis Presley), Suzanne, magnifico e memorabile brano di un’altra icona del folk, Leonard Cohen e NYC degli Interpol, il cui ritornello (It’s up to me now turn on the bright lights /Oh it’s up to me now turn on the bright lights) risuona ancora nella mia mente (qui per farvi un’idea).

Il live si è poi definitivamente concluso con I Keep Having These Dreams, quarta traccia di Micah P. Hinson And The Red Empire Orchestra (2008), con un delizioso arpeggio accompagnato ancora una volta dalla stessa intensità vocale che ha contraddistinto ogni singolo brano in setlist.

Bisogna dirlo: è stato un concerto notevole. Sarà che sono emotivamente legato a gran parte della discografia di Micah P. Hinson, sarà che sono stati proposti prevalentemente brani contenuti in dischi meno recenti, sarà che nonostante fosse all’aperto, su un terrazzo, l’acustica era buona e non ci sono stati problemi tecnici (a parte il cambio di A Dream Of Her), sarà che la location, elegante e raffinata, ha reso il tutto ancor più suggestivo, affascinante e coinvolgente.

Difficilmente mi dimenticherò di questo 4 luglio. E sono certo che anche tutti gli altri presenti avranno difficoltà a dimenticarsene.