Di Linecheck vi avevamo già parlato qui, elogiandone programma, lineup e intenti: un festival per addetti ai lavori ed appassionati, evento di punta inserito nella cornice della Milano Music Week che, sulla carta, prometteva più che bene. L’attesa e le aspettative, per forza di cose, erano quindi molto elevate. Vediamo come è andata.

DAY 0

L’asta del microfono adornata da una composizione floreale, un’unica luce proiettata al centro del palco al Magnolia di Segrate. Non serve altro a Sevdaliza per rapire ogni respiro nella sola apparizione in scena. L’artista trasmette, dalle prime movenze alla fine del live, una sicurezza e una maturità rara per chi è al debutto. Dal vivo, poi, il suo trip hop di stampo bristoliano venato di sensazioni mediorientali (le sue radici affondano in Iran) si arricchisce grazie ad una prova canora che vive di continui cambi di registro, di vuoti riempiti da vocalizzi che rubano i riferimenti a territori normalmente circoscrivibili al blues e al soul. I due musicisti alle sue spalle si prestano alla performance con dedizione, divenendo un tutt’uno esperienziale con la danza, ora energica ora sinuosa, di Sevdaliza stessa e del suo “shadow brother” (così presenta il ballerino nero che l’accompagna on stage). Tutto sembra essere incentrato sul percorso nascita-ricerca-dolore-morte-rinascita: una prova che unisce l’intimo all’universale proprio perché consapevole, musicalmente, sì, ma anche e soprattutto umanamente. Gli ornamenti aurei che ne decorano la fronte incoronano Sevdaliza regina indipendente di un impero che valica ogni confine, sia esso inteso come formalmente geografico o come linea che separa le due parti del palco. Sevdaliza è la donna del popolo, quello stesso popolo che la acclama in maniera talmente incontenibile che i ringraziamenti così sinceri e sentiti, sommessamente accecati dai faretti di scena, quasi commuovono.

DAY 1

Alle ore 20:00 il BASE è ancora in fermento per i meeting pomeridiani, da poco conclusi. Saluti, abbracci, amici e conoscenze, presentazioni, pass al collo. L’atmosfera è positiva e le prime note degli Yombe, puntualissime alle 20:30, ci ricordano che ad essere protagonista è la musica. Il duo presenta pezzi dal disco di prossima uscita: un fresco e godibile intreccio di pop ed elettronica che denota grande cura melodica e sonora. Un live suonato che fa percepire una bella presenza scenica e una maturità artistica ma che, purtroppo, per problemi di tempo, non si svela nel suo atto finale. Più tardi L I M porta avanti il discorso sul filone dell’elettronica made in Italy, sondando territori ora più eterei e sommessi, ora più d’impatto e, perché no, quasi danzerecci, mentre alle spalle si snodano ottimi visual. Più di tutto colpisce la voce che vola di ottava in ottava, creando armonizzazioni di rara bellezza. Nel mezzo Lewis Capaldi, giovane ragazzone scozzese che più scozzese non si può, dai connotati all’accento, capace di colpire con una voce impressionante, punto focale del suo folk minimale con una vena crooner. A concludere il mercoledì ci pensano i Little Dragon: pop dalle melodie nordiche intersecate ad una vena orientale, bagaglio culturale della frontwoman Yukimi Nagano, vera mattatrice della serata. Il palco è una festa di colori e di suoni, di costumi e luci, per un live divertente e divertito che manda a casa tutti contenti. Buona la prima.

DAY 2

Il secondo giorno inizia all’insegna dell’energia firmata dai connazionali Slowtide, con un pop che si fa forte di un piacevolissimo connubio vocale maschile e femminile, e dagli austriaci Cari Cari, power-duo chitarra e batteria per un folk-rock d’impatto. L’atmosfera, però, cambia radicalmente con la performance di Moses Sumney: l’aria si fa solenne mentre le enormi doti canore (dal falsetto al baritono) dell’artista trasformano il BASE in una chiesa pagana, ammutolita di fronte ad una funzione sacra che canta l’amore e i sentimenti. Il live è strabiliante, con loop vocali che diventano pad (in cui anche il pubblico è chiamato a interagire), percussioni create unicamente con l’ausilio di un microfono che registra mani e “beatbox”, picchi emotivi di climax struggenti e arrangiamenti studiati su scale non convenzionali e, dunque, mai banali. Ci sono il folk, il soul, tantissima anima black, schietta sincerità che colpisce nel profondo; c’è, probabilmente, la sorpresa più grande di questo Linecheck. Il live successivo di Perfume Genius è tutto ciò che ci si potrebbe aspettare, ma migliorato, ancor più potenziato in ogni sua sfaccettatura, dai momenti più energici e rabbiosi a quelli più intimi e riservati. Mike è ormai un performer unico, iconico, la cui arte è ancora di salvezza per molti e non più solo personale, universale manifesto di libertà che lo lega indissolubilmente ad un pubblico scosso da tanta intensità. Ci pensa Jacques a destare gli animi con il suo folle set techno completamente suonato, nel senso che ogni suono è generato al momento mediante l’ausilio degli oggetti più disparati: matriosche, una racchetta da tennis, una sveglia, un pollo gonfiabile; tutto in cassa dritta. Ce ne andiamo felici anche oggi.

DAY 3

Quando entro al BASE c’è già parecchia gente, accalcatasi curiosa per IOSONOUNCANE, sul palco per un live esclusivo con Paolo Angeli, artista sardo che si esibisce con una particolare “chitarra sarda preparata”. La performance è meditativa, evocativa della terra d’origine dei due. I momenti emotivi di certo non mancano, ma le parentesi ambient che inframezzano i pezzi dei due risultano talvolta un po’ troppo dilatate e poco amalgamate, figlie di un’improvvisazione che speravo ci regalasse qualcosa in più. Ariwo e Kokoko! (divertentissimi) proseguono sul main stage verso un mood più danzereccio, in un tripudio di pulsazioni tribali che rendono impossibile l’immobilità. Nell’altra sala (con un impianto e una disposizione non proprio ottimale) va in scena il live dei Niagara, e qui lo dico forte e chiaro: uno dei migliori progetti elettronici che abbiamo in Italia e, per assurdo e non so quale ragione, il più sottovalutato; i Nostri sono seguiti poi da Telefon Tel Aviv, redivivo progetto post lutto di uno dei due componenti originari, che ha saputo però mantenere quel romanticismo melodico e quel tocco glitch personale che da sempre ne ha contraddistinto i lavori. Personalmente, però, nel cartellone del venerdì, anzi, di tutto Linecheck, regna sovrano un nome: James Holden & The Animal Spirits. La performance è tutta suonata, con la batteria, i modulari e i fiati che compongono una sopraffina commistione di kraut, jazz spirituale e post-minimalismo; nell’insieme, la componente terrena, umana, tribale della rinata musica di Holden è potenziata, e il reiterarsi delle melodie diventa liquido amniotico per la meditazione. Una pecca (già riscontrata nel live dei Little Dragon) è un audio un po’ troppo pompato sulle basse, probabilmente dovuto anche all’acustica del posto, che però, per fortuna, non riesce ad inficiare un’ora abbondante di intima commozione che sfocia nel mistico, incontenibile, climax finale. È la pace dei sensi che nemmeno le sferragliate techno di Bochum Welt riescono a scalfire.

DAY 4

Sabato faccio tardi a cena e mannaggia a me perché l’unico spazio reso disponibile dalla calca di persone (si registra l’affluenza maggiore del festival) è praticamente appena entrati, accanto al mixer. I Calibro 35 non hanno perso smalto e stanno già dando sfoggio delle loro abilità e della loro potenza, fieri musicisti e capostipiti di quelle strumentali cinematiche di rimando poliziottesco che li han resi famosi. Dopo di loro c’è quello che, guardandomi attorno, capisco essere il live più atteso del festival. Thundercat sale sul palco con abiti estrosi, così come estrosa è la sua tecnica al basso: assoli tra il jazz e la fusion, accompagnati magistralmente alla batteria da un mostro di talento. Tutti sono in visibilio; già, tutti tranne me, che resisto altri cinque minuti solo per ascoltare These Walls di Kendrick Lamar, reinterpretata senza il rapper di Compton. Mettetemi alla gogna, probabilmente me lo merito, ma mi annoio mortalmente e decido quindi di andare nella sala B dove è stato allestito il Sound System che gli autoctoni avranno già visto in molte altre occasioni. Se sul main va in scena la festa dei tecnicismi, di qua c’è una rito tribale che attraversa il mondo in lungo e in largo, in un meltin pot transculturale: i ritmi spezzati di Nidia, lo show del fenomeno mondiale MC Bin Laden, divertente sì ma non attivo come pensavo a livello visivo, sino alle feste finali di We Riddim e Daniel Haaksman. Puristi in estasi di là, danze e presa bene di qua (per generi non proprio convenzionali nell’immaginario della milano notturna): ennesimo affresco di come Linecheck sia riuscito nell’intento di superare barriere e preconcetti.

DAY 5

Ultimo giro, ultima corsa. Bastano quattro battute in sala B per perdere ogni riferimento temporale: non si capisce più se sia tardo pomeriggio, se sia notte fonda o un after; quel che è certo è che il sound system pompa e gli Spazio Palazzo spingono con una techno ricca di raffinatissimi rimandi mediorientali, per un grandioso ed eclettico set che mischia in egual misura ricerca e godibilità. Si prosegue con i Paranoid London che, direttamente dalla BUKA di Milano, ribaltano ciò che ancora rimaneva da ribaltare: super cavalcate, un set pestatissimo eppure mai ignorante, pane per i denti degli irriducibili del clubbing. Con difficoltà mi allontano per raggiungere il main stage su cui sta finendo il suo djset Iamnobodi, un apripista per l’attesissima performance di Freddie Gibbs. Il rapper dell’Indiana cala una performance che è un vero e proprio asso nella manica. Flow impeccabile, parti acappella, sketch divertenti col suo dj e giocose richieste in italiano per abbassare le luci; gli infiniti “fuck tha police” e “when I say ES you say GN” servono a mantenere vivo il feeling con un pubblico in visibilio, preparato sui pezzi, con una fotta generale che Freddie ricambia a suon di sorrisi e bagni di folla in transenna. Un artista che trasuda realness e talento, un gangster sì, ma con un cuore d’oro per i fan (passando dal bar quasi deserto fa un cenno alla mia faccia da fan inebetito, mi allunga il cinque, lo racconterò a tutti). Non è ancora finita, manca la festa finale per gli ultimi superstiti della giornata e, ancor di più, della settimana. La stanchezza inizia a farsi sentire ma il set di Sockslove mi incolla al dancefloor, tra eclettismo nelle scelta dei pezzi e un mix raro spendo le ultime energie mentre tutt’intorno vedo solo felicità. Una bellissima conclusione per una settimana altrettanto memorabile. La musica rimbomba ancora all’esterno del BASE, mentre me ne vado, a pezzi e col sorriso.

L’atmosfera che si è respirata in questi giorni di Linecheck è stata positiva, concretamente costruttiva e non di facciata, arricchita da un piacevole reticolo di incontri e conoscenze, nuovi volti e vecchie amicizie. I meeting pomeridiani hanno permesso di porre le basi per un progetto comune che parta da una presa di coscienza interna della situazione dell’industria musicale italiana, utile per identificarne e, di conseguenza, elevarne i pregi e, al contempo, per correggerne i difetti. La scelta della lineup da parte degli organizzatori ha poi, come già detto più volte, evidenziato gli intenti di di superare barriere e confini, geografici e musicali, accontentando tutti con una classe e un’oculatezza lodevoli, riuscendo ad attrarre anche pubblico dall’estero. Milano è stata la capitale della musica per una settimana e, grazie a questa manifestazione, abbiamo capito tutti come questo status debba essere esteso al più presto al di fuori di limiti temporali prestabiliti, al di fuori di eventi ad hoc, rendendolo un punto saldo della vita meneghina. Milano come creatrice e fucina, come vetrina sì ma anche come ingranaggio inserito in un contesto nazionale di cooperazione, per far breccia ovunque: questo è lo scopo. C’è ancora tanto da fare e il traguardo è lontano, ovviamente, ma se Linecheck era la creazione delle fondamenta beh, mi sono parse ben salde.

 

Tutte le foto sono di Linecheck.