Con il concerto all’Autodromo di Monza si è chiusa la parentesi italiana dei Radiohead, ma per quello che qui rileva, gli aspetti musicali di questa giornata finiscono qui. Mi limito a dire che sono stati di livello così alto che per un paio d’ore sono riusciti ad affossare il lato oscuro dell’I-Days. E fidatevi quando dico che quella di venerdì può essere considerata senza dubbio la giornata degli eccessi, verso l‘alto e verso il basso. Da qualsiasi parte la si guardi si è toccato l’apice, ma anche il fondo.

Ciò mi ha portato a passare la scorsa notte con un conflitto interiore degno del miglior romanziere russo. Mentre riguardavo i video della serata ancora si alzavano i peli delle braccia, non a causa del ventilatore puntato dritto sul corpo seminudo, ma per la capacità di Radiohead di manipolare le nostre emozioni a proprio piacimento come i giocolieri al semaforo, ma senza trasmettere lo stesso fastidio. Per altro verso, l’imbarazzo per l’organizzazione complessiva della serata/giornata riportava la peluria al proprio posto facendomi sentire come se, finalmente, mi fossi risvegliato da un incubo, iniziato alle ore 16.30; orario previsto per il ritrovo sotto l’ufficio. E questo sì che ha creato parecchia insofferenza.

Per poter arrivare (o sperare di arrivare) ad un orario decente, anche a causa di uno sciopero cui ha aderito anche uno dei partner dell’I-Days, ho dovuto chiedere qualche ora di permesso. Il resto della mattinata lo ho passato quasi interamente a cercare un modo per non dover subire il ladrocinio dei 40 euro di parcheggi ufficiali, sponsorizzati anche dal sito del Comune e posizionati a “soli” 50 minuti a piedi dall’evento. Peraltro, nella giornata dei Green Day qualcuno lo ha pure trovato chiuso alla fine del concerto (visto che tra il deflusso finale e la distanza ci ha messo più di un’ora) e si è visto costretto a chiamare le Forze dell’Ordine per poter uscire da parcheggiopoli. Oltre il danno, la beffa.

Forse, chiamarlo vergognoso è ardito, ma far finta che sia l’unica soluzione possibile non è un atteggiamento condivisibile, visto che con una semplice visita a Google Maps ho potuto parcheggiare gratuitamente a 10 minuti dall’ingresso principale, senza che ciò abbia causato alcun tipo di disagio né ai residenti, né alla viabilità, tutt’altro che chiusa.

Parcheggiopoli

Dopo la camminata sotto il sole a 30 gradi, perché una volta all’autodromo ti aspettano altri km a piedi, si riesce finalmente ad arrivare all’ingresso e tra presunti controlli antiterrorismo (effettuati da personale all’apparenza non formato né addestrato) ed uno sguardo curioso ad una sessione di Gran Turismo (et similia) sulla pista, organizzata lo stesso giorno di un festival da 50.000 persone (!?), accedo a quella che possiamo definire la hall dell’evento. E sorpresa delle sorprese: proprio nella zona dove si raccoglie la concentrazione massima del via vai, troviamo alcuni degli stand del food, del beveraggio e dello scambio dei token in una vietta lunga e stretta circa 5 metri.

Proprio i token meritano un discorso a parte. Passi la scelta di farci ripiombare nelle discoteche degli anni ’90 con lo scambio dei free drink, per un presunto risparmio di tempo (chiunque abbia mai frequentato un festival sa che non è assolutamente vero), ma imporre una spesa minima di 15 euro è incomprensibile, oltreché contrario a qualsiasi normativa a tutela del consumatore, eccezion fatta per i paesi del terzo mondo, ma sul punto nutro ancora forti dubbi. Per molti, i 15 euro sono stati solo l’antipasto del coma etilico, ma per altri due bottigliette d’acqua sarebbero state sufficienti a soddisfare le proprie esigenze, considerato che era anche possibile portarsi il cibo da casa. E fortunato chi ha deciso di farlo, perché alle ore 20.45 in alcuni stand erano finiti i panini eccetto questo:

Il resto era un mix di speedy pollo surgelate e presunto cibo mexican da consumare assolutamente in piedi o per terra, dopo ore di coda. Va bene lo spirito wannabe-Woodstock e la capacità di adattamento, ma siamo nel 2017 e pensare che la gente debba per forza mangiare sul pratone è un’idea alquanto desueta dell’intrattenimento. Quantomeno per chi abbia mai frequentato un qualsiasi evento che non sia la sagra dell’asparago di Cantello. Io, ad esempio, metà live di James Blake ho dovuto ascoltarlo in coda mentre attendevo dell’acqua e solo perché avevo dei Ritz portati da casa sono riuscito a sentirmi i Radiohead dall’inizio alla fine.

Torniamo alla zona accoglienza (i più fini la definirebbero la classica trappola per topi) perché lo spettacolo che mi si è palesato davanti agli occhi sembrava incredibile. Come sempre bisogna sperare che il destino sia dalla tua parte e che non succeda mai nulla.

In questa via, dove nell’ora di punta si sono raccolti a centinaia, erano stati allestiti nell’ordine: tatuaggi finti, spazio cibo, scambio token, spazio drink e altre bancarelle e fin qui facciamo finta che sia ok, se non fosse che per ragioni incomprensibili anche ai complottisti di professione, si è scatenato un andirivieni di macchinette da golf, biciclette, motorini, veicoli per gli approvvigionamenti, camionette dei carabinieri, ambulanze, auto della croce bianca e un cazzo di veicolo militare a forma di rinoceronte che sembrava uscito da Metal Gear Solid. Il tutto senza alcun apparente motivo e, soprattutto, mentre le persone – già spazientite per la coda interminabile – cercavano di ritagliarsi uno spazio vivibile in una zona che di vivibile aveva solo l’ossigeno che si respirava. Ma anche su questo non ho certezze, perché la maggior parte dei motorini, che avevano scambiato quella zona per il paddock del Gran Premio, non erano elettrici, ma spruzzavano fumo e gasolio da ogni dove. Inutile dire che ad ogni passaggio le code si riaprivano e si richiudevano in modo disordinato e si ripartiva da capo, tra mugugni e furbacchioni che ne approfittavano per guadagnare un paio di posizioni. (In mezzo a questo casino c’erano anche dei malcapitati disabili che per prendere da bere hanno dovuto improvvisare una Parigi-Dakar).

Del resto, girare con il pass al collo con lo sguardo di chi ce l ha fatta e far finta di essere occupati in qualche missione segreta è mestiere tra i più ambiti in Italia, dove l’approssimazione si maschera da misura di sicurezza e dove l’attenzione per chi ci mette i soldi viene considerata l’ultima delle priorità.

Rimane ancora il dubbio che la scelta del posizionamento degli stand sia stata frutto del caso e dell’incompetenza. Oltre ai problemi anzidetti, penso, anche al povero stand Haribo che ho notato con la coda dell’occhio solo perché avevo girato lo sguardo sul punto più inculato dell’area concerto. Ma siccome ero in coda da 40 minuti e i Radiohead erano lì lì per iniziare, ho dovuto rinunciare alle rotelle gommose. Certo, sarei potuto arrivare prima, come i molti che alle 11 erano già lì, ma per (s)fortuna si lavora anche di venerdì.

Nel pratone la situazione non è stata poi così differente. Il denominatore comune è stato senza dubbio rappresentato dalle code e dall’attesa e ci si è visti obbligati a scegliere se guardare il live o se, invece, utilizzare i nostri preziosi token (non utilizzabili, peraltro, nelle altre giornate).

La giornata di ieri, grazie ai Radiohead e grazie ad un pubblico attento e forse anche un po’ impaurito per i recenti fatti di cronaca, non è andata male, ma non è sufficiente per essere considerati un prodotto di qualità; dove per qualità non si intende certamente l’onore della ribalta al TG regionale, l’articolo accattivante sul blog o sul quotidiano compiacente, o ancora la presenza di migliaia di persone. Dal punto di vista musicale non può certamente alzarsi alcun tipo di polemica, anzi, contrariamente a molti altri eventi anche l’impianto è sembrato funzionare molto bene. Tuttavia non basta.

Molte persone non torneranno, altre invece preferiranno girare per i festival europei che, paragonati all’esperienza di ieri, sembrano provenire da epoche lontanissime nel futuro, quasi fossero una puntata dei Jetsons.

Il deflusso finale, contrariamente a quanto abbiamo appreso dalla data fiorentina e dalla serata precedente, non ha registrato problemi eclatanti, almeno per chi ha deciso di avviarsi verso l’uscita con scatto felino subito dopo l’ultimo saluto di Thom Yorke. Si è camminato tanto e, seppur con qualche fisiologico intoppo, non è stato così traumatico uscire da quello che inizialmente poteva apparire un labirinto. Certo, c’è da dire che la location scelta ha aiutato parecchio, essendo già abituata alle grandi folle e nonostante ciò si è riuscito in diversi momenti della giornata a rendere la vita impossibile a molti dei partecipanti. Soprattutto per quanti, una volta usciti dall’autodromo, hanno dovuto farsi un’altra sfacchinata fino ai parcheggi, e poi fino al treno, tornando a casa a notte fonda.

Ultimamente si parla molto di festival, di Europa unita e di cervelli in fuga. Ecco, un giro fuori dal paesello (dove è facile sentirsi grandi ed arrivati) fatto con curiosità e umiltà senza la spocchia tutta nostrana e senza quella superficialità contraddistinta da un forte e deciso “ma sì“, certamente non renderebbe l’Italia il paese più invidiato del globo, ma almeno aiuterebbe a trasformare i già pochi spazi vuoti della nostra vita in attività piacevoli e non in sofferenze, alleviate solo dalla presenza di questo o di quell’idolo o da una Creep suonata a sorpresa.