“Cattedrali sonore” è un’espressione che mi piace tantissimo. Mi piace come suona ma ancor di più mi piacciono le immagini che evoca, ciò che rappresenta. In due sole parole è racchiuso un certo tipo di sound unico, inequivocabile e al contempo vario, imprevedibile, a cui personalmente sono legatissimo. Ambient, drone, industrial, infiniti slanci verso l’alto, dolorosa ricerca, magniloquenza, sacralità, timore reverenziale.
Mi piace poi pensare che la scelta dell’architetto musicale Christian Fennesz di costruire la propria cattedrale sonora in un Auditorium San Fedele gremito fino al sold-out (lunedì 26/09/2016, in occasione dell’apertura della rassegna Inner_Spaces), all’ombra della cattedrale di Milano, non sia del tutto casuale.

Prima di lui, però, meritano menzione e-cor ensemble T.E.S.O. che, con assoluta maestria, tra archi, atmosfere dilatate e rigurgiti artificiali, hanno saputo incantare la platea con la loro rielaborazione elettronica di Silentium, una delle opere più famose del compositore estone Arvo Part, magnificamente riprodotta e potenziata dall’Acusmonium del teatro.

Dopo un breve intervallo Fennesz sale sul palco in silenzio, molto più simile ad un anonimo professore universitario che all’icona musicale che è. Abito scuro, occhiali da vista, si siede e inizia ad armeggiare con il computer e le macchine disposte su quella che a tutti gli effetti è una scrivania. Partono dei droni, fuoriescono dal suo Mahler Remixed, si crea l’atmosfera. La presenza del compositore austriaco (o meglio, di entrambi i compositori austriaci, Fennesz e Mahler, appunto) inizia ad aleggiare sui presenti, un ricordo ancestrale che si fa sempre più vivo via via che i volumi si alzano, che il suono si fa sporco; passo dopo passo, istante dopo istante, la classicità viene investita di una contemporaneità timbrica che spezza la perfezione sinfonica; il tardo-romanticismo rivive in un’interpretazione sincera e viscerale, mischiandosi senza soluzione di continuità ai componimenti di Bécs.

È l’ingresso della fedele chitarra, però, che rompe definitivamente le pareti. Le pareti degli eccellenti speaker dell’auditorium, dell’udito, ma anche la quarta parete. Sì perché Fennesz colpisce e penetra ognuno degli avventori con il rumore, con l’imperfezione, con quello che sui libri di teoria è sbagliato. Le bordate della sei corde sono magistrali, occludono il petto e al contempo elevano l’esperienza a un livello superiore. C’è chi chiude gli occhi, chi rimane impassibile, chi sospira, chi si spaventa e sobbalza. Tutti, però, consapevolmente partecipi di un solenne purgatorio sonoro che ci accomuna e che ci ammalia nella sua ineffabilità, nella sua fisicità a tratti sfrontata.
I cori ottocenteschi cullano, i droni destabilizzano, gli echi sinfonici rassicurano, i glitch destrutturano, Liminality mozza il fiato.

In balia dell’arte, per 45 minuti, abbiamo assistito inermi ma totalmente immersi alla costruzione di una cattedrale magnificente, imponente, invitante anche nei suoi bassorilievi più sinistri e nelle sue guglie più distanti. Bastano però pochi glitch, qualche secondo e l’accensione delle luci per farla scomparire d’un tratto.
Niente è perduto: essa è ancora lì, vive nella mente di chi c’era, e gli applausi scroscianti, così come questo racconto, sono solo un misero ringraziamento per uno spettacolo irripetibile.

 

[Foto di Alice Parola]