Altro giro altro sold out per la Santeria Social Club che ha ospitato il live acustico di Erlend Øye, dando l’ennesima prova di intelligenza programmatica tra le più spiccate in Milano. Ma non c’è solo Milano. Il tutto esaurito si è registrato anche nella serata di Padova e probabilmente sarà una delle costanti del suo tour.

Ritroviamo l’artista norvegese dopo il successo globale dei Kings of Convenience, in una veste del tutto nuova che, sebbene già sperimentata a spot, ormai gli si è cucita addosso come un destino rivelato e con la quale, ragionando ex post, sembra esserci nato. Ed ora che l’argomento prende forma, riecheggia la nota metafora del costume di Superman rispetto a quello degli altri supereroi: c’è chi nasce supereroe e chi lo diventa, acquisendo questo o quel potere pur nel bel mezzo di una vita parecchio sfigata. Ma, appunto, c’è chi si porta fin dalla prima settimana di gestazione alcune qualità. E divagare è un attimo, anche perché Erlend potrebbe nascondere un’aderentissima e colorata calzamaglia da salvatore della patria sotto quel look nordico da baronetto in uscita domenicale.

Così, dopo pregresse ed alterne esperienze europeiste o di matrice folk-statunitense, lo ri-accogliamo abbigliato alla medesima maniera e per niente invecchiato, ma con alcuni bottoni della camicia slacciati dai quali si intravedono i tipici colori sgargianti dei costumi DC. Tuttavia, nonostante la mutevolezza e l’evoluzione del suo progetto artistico (e delle sue domiciliazioni), i tratti rimangono i medesimi, come se i messaggi e le parole di ieri fossero gli stessi di oggi. L’uomo della strada di una volta parla al suo pubblico proprio come allora, attraverso forme linguistiche derivate da quella originaria e, soprattutto, senza negare il sorriso ottimista di un forestiero in una nuova contea.

Come di consueto, il leitmotiv delle sue esibizioni è rappresentato dalle cover, che non sono meri riempitivi di spazi vuoti, ma sottili gap junctions che collegano i molteplici messaggi d’amore che trasmette al suo pubblico. Queste re-interpretazioni voce/chitarra/ukulele arrivano a toccare le sue origini musicali, come i The Smiths (Heaven Knows I’m Miserable Now), ma soprattutto alcuni grandi classici del panorama musicale nostrano. Parte del live, infatti, si dipana in una intensa rappresentazione da piano bar di Bruno Martino o de I Giganti che sarebbe potuta andare avanti per ore, canzone dopo canzone, a sviscerare l’intera discografia italiana di quegli anni là, come se ci si trovasse realmente nel patio di qualche vecchio tre stelle della riviera. Ed i più confidenti li troviamo comodamente appollaiati a pochi centimetri dalla cassa spia, seduti sui gradini o praticamente sdraiati sul palco.

L’atmosfera da litoranea estate italiana, che per chi inizia a contare i capelli bianchi sulla testa accende ricordi ed inquietudini, prende piede e continua anche nell’interpretazione dei suoi successi da solista, vecchi e nuovi. Tra gli altri, Garota, Cayman Islands, Fence Me In, Upside Down, Bad Guy Now, Peng Pong, Dancing With You, Lies Become Part of Who your Are, tutte ripulite dalle tendenze pop-reggae dell’ultimo album, ma al tempo stesso non soporifere come talvolta accade dopo 1 ora di unplugged. La bravura sta anche nell’aver trasformato un set acustico in una primaverile schitarrata tra compari. E ancora, La Prima Estate dedicata alla siracusana Lucia con la quale racconta la sua nuova quotidianità, ad una latitudine così distante dalle esperienze passate che anche il bicchierino d’acqua gratuito post caffè diventa soggetto cinematografico. Il tutto in un silenzio contemplativo, interrotto solo dagli scatti delle Canon, che ha amplificato gli effetti di questo indecifrabile incontro tra Norvegia-Sicilia-Simon & Garfunkel, passando per Berlino e l’electro-pop tedesco.

Ed è la Sicilia l’altro elemento che lo sta caratterizzando e che, in un modo o in un altro, appare con forza anche nei suoi live. E quando canta Paradiso, morbidissima ballata-manifesto di amori estivi e fughe di cervelli, si rimane tutti un po’ così. Si sorride per il suo modo di interpretarla e di masticare accenti e metrica, ma si riflette su come la semplicità sia alla base dello sguardo dello straniero che decide pure di prender casa a ridosso delle scogliere di Ortigia.

Sul palco non è solo. Con lui ci sono Marco Castello (per gli amici Mario), Luigi Orofino e Stefano Ortisi, i quali, lontanissimi dal ruolo delle comparse, sono parte integrante (ed amatissima dal pubblico) di questo nuovo amore incondizionato per l’Italia, la Trinacria e le persone che vi abitano. Tre musicisti locali, trovati alla vecchia maniera suonando nei locali della sua nuova casa e con i quali è in grado di improvvisare azzeccatissime jam session dentro e fuori dal palco. E l’onestà di questo artista, infinitamente grato per il plus che questo trio sa conferire allo spettacolo, la si ritrova in un momento preciso del concerto, quando decide di sedersi in un angolo e di lasciare loro uno spazio assolutamente meritato mentre lui, nascosto all’ombra di un mini ventilatore, osserva la sua piantina crescere e rinvigorirsi sempre di più.

La serata termina con 1517 suonata dalla squadra al completo in un trionfo di carribean easy listening, che va a chiudere con un kiss ed una spruzzatina di profumo questa letterina per la compagna di banco scritta con la spontaneità e la naturalezza di un pre-adolescente, ma anche con la maturità di chi ha deciso di utilizzare e rivelare tutti i suoi superpoteri nascosti da occhialoni d’altri tempi.

Qui alcuni scatti del concerto di Padova: