Gli alt-J prendono il loro posto sul palco, chiusi nelle loro gabbie geometriche di luci e controluci, tubolari a led che si estendono illusoriamente in verticale dalla cima della struttura fino a giù dove, nel palco, sono poggiati i piedi di Joe Newman.

Il trio britannico approda così a Roma, nell’unica data del tour collegato al loro ultimo album in studio, Relaxer.

L’enorme spazio a cupola del PalaLottomatica si riempie delle note di Deadcrush e subito si cancellano tutti i condizionali del caso. Quali? I soliti: che gli alt-J non sarebbero adatti ai palazzetti, che la perizia e la complessità tecnica del trio non sarebbero del tutto adeguate alle performance dal vivo, che in fin dei conti la musica degli alt-J non sarebbe fatta per far esaltare una folla urlante di spettatori.

E invece no. E invece gli alt-J hanno trovato proprio in virtù di queste caratteristiche la loro dimensione specifica anche sul palco, sia che esso sia indoor o di un festival estivo.

Poche parole, pochi movimenti, ma tanta tanta qualità. Ognuno dei tre componenti della band è chiuso nel suo mondo, delimitato anche idealmente dall’allestimento del palco nella propria “corsia”. Eppure, in questo clima che vuole presentarsi come freddo, avviene che il pubblico stringe un’empatia tutta particolare con la band, che non è veicolata dal coinvolgimento fisico, bensì dalle parole, dai gesti piccoli, per esempio limitati al gesto di Gus che dà il via a un battimani a tempo, oppure da un cenno di Joe che invita il pubblico ad urlare “This is from“.

Per intenderci, gli alt-J non sono un blockbuster di Michael Bay e pertanto la loro cifra raffinata è espressa in queste modalità qui, in questi toni qui. A parlare e a smuovere il pubblico è la qualità della loro proposta.

Il concerto inizia alle 21.30 e in un’ora e mezza si è sviluppata una scaletta molto ben assortita, sia per la scelta dei pezzi che per la disposizione.

I tre sono fermi sul palco, quasi immobili: Newman chitarra al petto, Gus Unger-Hamilton con i suoi strumenti che lo circondano da due lati; dalla parte di Thom Sonny Green c’è più movimento: le sue braccia che governano le bacchette dalle risposte elastiche della batteria sono una vera e propria danza, sinuosa e enigmatica, come tuttavia, alla fine, lo è stata in toto l’esibizione.

Relaxer ha fatto la sua bella figura, ha suonato benissimo dal vivo In Cold Blood (annunciata da un tenerissimo italiano di Gus), ma soprattutto eccezionale è stata 3WW che ha anticipato la chiusura con Breezeblocks. Left Hand Free resta forse il pezzo più potente di This Is All Yours, e uno dei pochi con cui addirittura in parterre si intravedeva qualche spintarella.

Ma non c’è niente da fare, passano gli anni, la formazione perde un componente, gli alt-J sperimentano nuove derive, ma maledizione, quando si attinge da An Awesome Wavesi raggiungono le vette più alte.

Ce lo aveva detto proprio Gus, in questa intervista, che il 2012 era stato sì il punto di svolta della loro carriera, ma insomma, un punto ormai distante.

Ma al cuor non si comanda, ed ecco che ancora oggi, nel 2018, i 2/3 dei pezzi proposti al PalaLottomatica provengono da quel disco. E sono i momenti più memorabili.

E allora spazio ai duetti tra Joe e le migliaia di voci del pubblico in Matilda e in Taro; via col permettersi di proporre un pezzone come Fitzpleasure per secondo; e via con la magia di Dissolve Me, tanto per citarne un’altra. Poi, neanche a dirlo, la conclusione sancita da Breezeblocks, in cui tutto alla fine si è fuso e con-fuso, le voci di Jon, Gus e Tommy con le voci dei fans, il delirio delle tastiere, la chitarra impazzita, la batteria esasperata: tutto avvolto nel giallo delle luci, ultimo colore proposto dalla spettacolare scenografia.

Perché infatti questo concerto è stato accompagnato da uno spettacolo visivo eccezionale, come davvero raramente se ne vedono in giro.

Il palco era suddiviso in tre sezioni delimitate da due separé fatti di tubolari led. L’effetto voleva che i tre artisti sembrassero separati, ognuno all’interno del suo corridoio, del suo canale.

Ma ovviamente gli spazi si fondevano, e questo grazie alla suggestiva commistione di proiezioni, di luci, di controluci e di teste rotanti. Quest’ultime, poste in alto e lateralmente, si muovevano all’unisono con le canzoni e spesso andavano a proiettare luce perpendicolarmente ai tubi verticali: in questi casi, veniva a formarsi un labirinto geometrico di scompartimenti virtuali, fatti sia di materiale solido (i tubi verticali) che di fumo illuminato dai fasci di luce orizzontali. Davvero notevole.

Insomma, spesso il PalaLottamatica è soggetto a critiche perché poco adatto ad ospitare l’acustica di un concerto, ma in questa fattispecie, ha controbilanciato queste carenze con l’ottima disposizione per allestire uno spettacolo visivo del genere.

She makes the sound, the sound the sea makes to calm me down. #altj

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E quindi così, tra luci di ogni sostanza, colore e direzione, gli alt-J hanno offerto al pubblico di Roma un concerto davvero di qualità, sia per la loro impeccabile esibizione, sia per lo spettacolare allestimento visivo del palco.

Infatti va detto che non hanno sbagliato praticamente niente. Non c’è stata una sbavatura: strumentale ineccepibile, così come le voci, anche quando si accavallavano tra loro. Magari, accade spesso che, paradossalmente, questa impeccabilità non venga apprezzata, ma in questo caso, cosa si può dire? La musica degli alt-J è complessa, eppure, anche dal vivo tutto riesce così placidamente. Il trio, in tutta la sua naturalezza priva di sovrastrutture, fa sembrare una passeggiata un concerto che in realtà è frutto di una perizia davvero elevata.

Cosa si può dire allora al termine di uno show del genere? Si può dire che gli alt-J, ancora e ancora, si confermano una delle più valide proposte artistiche degli anni Dieci.

Jon, Gus, Thom: qui in Italia sarete sempre i benvenuti.