Oggi vi raccontiamo velocemente i nostri pensieri su una manciata di dischi usciti negli ultimi giorni: il nuovo lavoro di Beck, l’esordio dei Regard, il ritorno di Torres e il tanto atteso album di Courtney Barnett & Kurt Vile.

Courtney Barnett & Kurt Vile – Lotta Sea Lice

L’unione d’intenti tra Courtney Barnett e Kurt Vile è sembrata perfetta fin da subito, quando abbiamo scoperto che – negli incontri tra un festival e l’altro – i due avevano sviluppato una forte amicizia, che in questi casi vuol dire più o meno sempre “facciamo un album insieme”. Il fascino che suscita l’avvicinamento di questi nuovi Kurt e Courtney per noi ragazzotti indie che amiamo le chitarre slacker e l’atteggiamento un po’ buttato via è evidente, così come sembrava perfetta la combo tra il songwriting sornione di Vile e quello obliquo e tagliente della Barnett. Mettiamo subito le cose in chiaro: in Lotta Sea Lice c’è moltissimo Kurt Vile e molto meno Courtney Barnett, a partire dalle atmosfere lisergiche e dalle chitarre tipiche del capellone di Philadelphia fino ad arrivare ai pezzi veri e propri, che sembrano ospitare la Barnett come featuring, senza mai spingersi oltre. Anche nei testi i giochi di parole e l’ironia tipica di Courtney lasciano spazio alle strofe ben più lineari di Kurt, con piccole eccezioni (Continental Breakfast) che non fanno che confermare la regola: questo album aveva bisogno di più Courtney Barnett e meno Kurt Vile.

Voto: 6.6 – Sebastiano Orgnacco

Beck – Colors

Beck Hansen non è un tipo prevedibile, e probabilmente non gli interessa neanche provare ad esserlo. Colors è un album che nasce sbagliato sotto tanti punti di vista: uscito troppo in ritardo per cavalcare l’onda dell’inaspettato successo ai Grammy 2015 e assolutamente troppo pop da FM per i fan di vecchia data. Beck giustamente se ne frega, pesca le chitarrine giuste e i ritornelli perfetti, regalandoci un disco che di spunti e “colori” ne offre davvero tanti (non tutti brillanti). Inutile dilungarsi: se non vi sono piaciuti i singoli di lancio troverete ben poco di cui gioire qui dentro, ma per chi ancora non riesce a smettere di canticchiare Up All Night questo album potrebbe rivelarsi un divertimento inaspettato (tranne Wow, quella rimane proprio inascoltabile). Non il miglior album di Beck, ma probabilmente il più leggero e accessibile della sua intera discografia, in linea con l’ultimo dei Paramore e i vari Bruno Mars e Carly Rae Jepsen, “guilty pleasures” di tanti detrattori di Colors.

Voto: 6.1 – Sebastiano Orgnacco

Protomartyr – Relatives in Descent

Relatives in Descent è un disco di un’altra dimensione. Non che stessimo qui a dubitare del talento dei Protomartyr – tra le band post-punk migliori della nuova generazione – ma è pur vero che il post-punk rischia sempre, ad un orecchio poco attento, di suonare troppo simile. Il passaggio dimensionale che porta la band di Detroit qualche spanna sopra al precedente The Agent Intellect muove su due rette perpendicolari: quella dell’innovazione musicale e quella lirica. Punto d’incontro degli insiemi è un album che affronta temi delicati con ritmi marziali, facendosi compendio alla catastrofe ormai già avvenuta, osservando ossessionato, isterico e melancolico la Storia così come il futuro (A Private Understanding), i fantasmi e i figli (My Children, Caitriona), il degrado e quel tipo di bellezza che solo dal degrado può nascere (Night-Blooming Cereus). L’innovazione passa attraverso il ruolo sempre più centrale che la poetica di Joe Casey acquista in Relatives in Descent: gli strumenti fanno mezzo passo indietro e, piuttosto che cantarci sopra, Casey diventa cantautore come Nick Cave o cantastorie come Mark Kozelek, lasciando che sia la sezione ritmica a rincorrere affannata la sua rabbia o il suo spoken word. A riconfermare le aspirazioni cantautoriali c’è anche la volontà di distanziarsi dallo standard post-punk, preferendo una chitarra più pulita (Here Is the Thing) a dispetto di ritmi soffocanti e volutamente ripetitivi. Laddove gli attacchi alla mascolinità si trasformano in coretti (Male Plague) e la disperazione in risata isterica (The Chuckler), il pessimismo cosmico non può che abbracciare l’assurdo letterario: “I guess I’ll keep on chuckling”. E il dramma dei nostri tempi trova la sua traduzione perfetta non nel pop meta-ironico, ma nell’esasperazione della ripetizione e della compulsione.

Voto: 8.2 – Claudia Viggiano

TORRES – Three Futures

Sembra esserci un abisso tra la TORRES di Sprinter e quella di Three Futures, un cambiamento che molti hanno etichettato come “à la St. Vincent“. L’interpretazione più realistica, però, sta nelle sfumature. Mackenzie Scott è sempre lì con la sua chitarra elettrica e la sua voce inconfondibilmente fragile quanto cruenta. Al terzo lavoro in studio, il minimalismo che necessitava di poco più che voce e chitarra lascia invece spazio a tappeti di synth e drum machine che riflettono una ritrovata sensualità e una riappropriazione più aggressiva della dimensione compositiva. Three Futures è prima di tutto un album sensuale soprattutto quando Scott tocca le corde dell’ossessione (Helen in the Woods) e di una consapevolezza che è rivalsa anche sessuale (Righteous Woman, Skim). TORRES osa al meglio quando si racconta attraverso diversi personaggi, e uno di questi è proprio la donna così sicura di sé che usa come corazza in copertina e nel video di Skim, in cui Scott sovverte il paradigma misogino del rocker e dell’amante senza volto lasciando trasparire, nel testo, le insicurezze e le contraddizioni che sono al centro della potenza creativa di Three Futures.

Voto: 7.6 – Claudia Viggiano

Regarde – Leavers

Dopo qualche mese di silenzio in casa V4V e dopo l’ottimo EP Perspectives (2015), arriva l’atteso esordio dei Regarde, band vicentina la cui vena punk-rock ed emo rifugge dalle influenze nostrane e si ancora piuttosto alla recente scena emo/pop-punk statunitense. L’alto fattore esportabilità – che è anche valso ai Regarde una distribuzione americana (Wiretap Records) – è merito anche di Jay Maas dei Defeater, produttore tra gli altri di Title Fight e Citizen; a questi ultimi si può associare l’impronta molto più hardcore della produzione di Leavers, in cui il cantato tipicamente emo (Tiny Moving Parts) poggia su chitarroni che farebbero invidia allo sludge nella botta in apertura di Never Said e che richiamano proprio le virate shoegaze dei Title Fight di Hyperview in Patterns, mentre in Last Summer riescono a piegarsi ai doveri non banali del pop-punk. Leavers è un album che, fosse stato prodotto negli Stati Uniti, avrebbe corso il rischio di perdersi nella ressa; in Italia, invece, i Regarde riescono a ritagliarsi una nicchia specifica tra chi l’emo lo preferisce all’americana, operazione che probabilmente riuscirà anche all’emo-math dei colleghi d’etichetta Cucineremo Ciambelle.

Voto: 7.0 – Claudia Viggiano