All’attimo direi:
sei così bello, fermati!
Gli evi non potranno cancellare
l’orma dei miei giorni terreni.
Presentendo una gioia tanto grande,
io godo ora l’attimo supremo.

 J. W. v. Goethe, Faust

 

Fermare l’attimo per poterlo analizzare, cristallizzarlo anche solo momentaneamente per poterne godere appieno, per provare quella sensazione di onnipotenza divina che trascende il tempo, per eludere le lancette che da sempre sono carceriere dell’umana condizione.
Tanto quanto il Faust di Goethe si adoperava nel proprio studio per originare l’Homunculus, allo stesso modo William Basinski ha utilizzato registrazioni su nastro analogico, effimero nella sua terrena deperibilità, per dare vita a The Disintegration Loops, l’opera che lo ha consacrato e consegnato agli annali della musica. Da quel momento in poi i suoi successivi lavori si sono concentrati proprio sulla fotografia dell’attimo sonoro e sulla sua riproducibilità, sulla sua discutibile eternità, disgregandolo sì ma mai sul banco degli imputati, con la conseguenza di ottenere opere nobili come risultato del processo.

Non fa eccezione questo ultimo A Shadow In Time che è anzi forse ancor più azzardato nella sua idea generatrice. Il lavoro, composto da due suite di 20 minuti ciascuna, nasce infatti come elegia in memoria a David Bowie.
Non è un caso, però, che il primo pezzo si intitoli For David Robert Jones: Basinski non vuole celebrare il personaggio che tutti conosciamo, bensì analizzare la persona, ponendo il focus sui suoi ultimi istanti e su quelli immediatamente postumi. La traccia si costruisce su un loop sporco, un tappeto polveroso che nella sua eviterna ripetizione va a creare un requiem di droni e feedback. Su di esso si posa una linea di quello che mi piace pensare sia un sax, tanto caro a Bowie (e se l’orecchio non mi inganna potrebbe essere un fraseggio preso da Subterraneans di Bowie stesso), ma sporco, in lontananza, sbagliato, stonato, fuori luogo, eppure così commovente nella sua schietta onestà che trasuda dolore. Tutto ripetuto ad libitum, come un mantra.
La titletrack è l’accettazione, la convivenza, l’analisi distesa e le somme che si tirano a mente fredda dopo un lutto. Dalle crepe, dalle fessure, dalle cicatrici, piccoli aliti di luce iniziano a farsi largo per confortare come le tonalità del tappeto ambient che costituisce il pezzo; sebbene queste sembrino guastarsi lungo il cammino rischiando di collassare drammaticamente nella parte centrale, giungono in soccorso, per rassicurare, le flebili ma consolanti note di pianoforte finali disperse in un rumoroso silenzio.

Come sempre Basinski si è spinto oltre. Ha cercato di fissare in musica il momento della morte, quello specifico del trapasso, provando a far incagliare la barca di Caronte nella perfetta centralità del suo percorso. In A Shadow In Time sono contenute tutte le reazioni umane che fanno fronte al tragico evento: rabbia nell’inconcepibilità, disperazione nella perdita, dolore nella mancanza, dolcezza nel ricordo. La scelta di dedicare il lavoro a David Bowie, per quanto sia molto toccante, condivisibile e comprensibile, sembra quasi un pretesto per sottolineare quanto anche un artista del suo calibro, in fin dei conti, sia stato “A Shadow In Time” di fronte ai meccanismi che ci governano.
A Shadow In Time è il disco di tutti: privato, universale, confortante memento mori. È un’opera che trascende il pentagramma per abbracciare il pensiero, è paradosso filosofico messo in musica, è ciò che sulla carta appare inammissibile, è la rappresentazione più autentica della natura umana, della consapevolezza del suo fine ultimo.
Proprio per questo esso riesce ad ammaliare e a sorprendere ancor di più nel suo magnifico compimento, a colpire dritto nel profondo.

Tracce consigliate: For David Robert Jones, A Shadow In Time