Non chiedetemi perché recensisco questo disco solo ora, mi dispiace un casino giuro, scusatemi tutti, mi pento di brutto promesso, anche perché è il classico album che ti prende al primo ascolto, il classico album che non ha neanche una canzone brutta, il classico album un po’ triste, un po’ gagliardo, un po’ malinconico, che lo ascolti e ti esalti e ti senti un po’ homo e ti va pure bene essere homo per quaranta minuti e passa perché fanculo Confess è proprio figgo.

Il secondo capitolo della carriera di Twin Shadow segue alla perfezione il cammino iniziato dal precedente album: riesumazione dei 70s più disco con una spolverata di new wave con uno spirito pop talmente mainstream da fare il giro diventando così un pezzo immancabile della collezione del buon hipster che gira a finestrini abbassati con la musica a manetta per le vie affollate di una città balneare senza un pelo di vergogna. Scusate per il passo autobiografico.

L’album è guidato da quattro pezzi forti: Golden Light, brano d’apertura che sembra pescato che funge da ponte di connessione tra questo disco e quello precedente, Five Seconds, epicità disco-pop-wave fatta canzone (nonché una delle canzoni più imprescindibili dell’anno se non vi piace la fica), Beg For The Night, da lacrime con tanto di ritornellone monumentale, e Be Mine Tonight, ideale chiusura di Confess.

Non che gli altri pezzi non siano all’altezza della situazione (persino l’hidden track Mirror In The Dark è una perla), anzi: non esiste neanche un riempitivo. Magari ci pezzi un po’ meno riusciti (You Call Me On, Patient, I Don’t Care), ma anche in questi c’è sempre qualcosa da dire di nuovo, o meglio, di diverso, visto il totale citazionismo che caratterizza l’album. Infatti pur non avendo presente quasi un cazzo del periodo che Twin Shadow riporta magicamente in vita mi sembra di conoscere ogni singolo secondo di quest’album da quando sono nato. È questa la figata.