Goon

Se Federico Buffa si fosse occupato di musica anziché prestare la sua opera intellettuale al servizio del giornalismo sportivo, probabilmente avrebbe dedicato una puntata del suo “Buffa Racconta…” alla storia di Tobias Jesso Jr.
Ci troviamo a Vancouver, in Canada. Il piccolo Tobias è uno di noi, cresce con il sogno di diventare una popstar e di fare della musica il suo mestiere. Così comincia a muovere i primi passi nell’industria musicale in qualità di bassista con i The Sessions e successivamente per la teen idol Melissa Cavatti, ottenendo un contratto discografico che impone il trasferimento immediato a Los Angeles. Purtroppo le cose non vanno per il verso giusto, a causa alla qualità non proprio esaltante dei brani; nonostante vari tentativi di riciclarsi come autore svariando tra diversi generi come l’elettronica e il folk, Jesso inizia a rendersi conto che il sogno americano si sta presto trasformando in un vero e proprio incubo.

E l’incubo si concretizza nel 2012, vero e proprio annus horribilis (per utilizzare un eufemismo), quando il canadese viene letteralmente mitragliato dalla sfiga: appena scaricato dalla fidanzata, subisce un grave incidente alla mano durante una passeggiata in bici, investito da una Cadillac per poi venire derubato del mezzo mentre era ancora a terra dolorante: una scena simile non verrebbe in mente nemmeno al più cinico degli sceneggiatori. Ma la sfortuna perseguita il musicista: durante il volo di ritorno verso casa, alla madre viene diagnosticato un cancro e non appena giunto in Canada apprende del trasferimento della sorella, che gli lascia in eredità un pianoforte, unico strumento rimastogli a disposizione per la composizione del nuovo materiale.
Spesso i limiti, come le paure, sono soltanto delle illusioni (cit.), così lo spilungone di Vancouver inizia a comporre ballad inviandole a numerosi artisti come se piovesse. Dopo alcuni rifiuti eccellenti (Lana Del Rey, Sky Ferreira), arriva finalmente il feedback positivo di Chet “JR” White dei defunti Girls, che rimane rapito dalla semplicità dei pezzi, intravedendo in lui un futuro da potenziale Lennon degli anni 2000. Jesso torna in America, la madre guarisce dalla malattia e arriva l’esordio live al Pitchfork Festival: i tempi sono maturi per un grande album. Perchè Goon è proprio questo: melodia ed emozioni sono le parole chiave di questo lavoro, che vuole continuare il revival del cantautorato anni ’70, uno dei trend di inizio anno, seguendo le orme di Jessica Pratt, Josh Tillman e compagnia bella; sin dalle prime note è evidente che il merito dell’ottima riuscita dell’album vada attribuito in gran parte al cast di produttori, che annovera il già menzionato White, Patrick Carney (The Black Keys), Ariel Rechtshaid e John Collins (The New Pornographers).

Il vissuto di Jesso è il filo conduttore di Goon: How Could You Babe, affronta il tema del tradimento, il pathos e l’orecchiabilità del ritornello valgono da sole il prezzo del biglietto. Hollywood, uno dei brani più morbidi e intensi, narra le peripezie del cantautore in terra americana, giocando magistralmente con le pause e la dinamica, con una chiusura orchestrata pregna di intensità emotiva. Maliconia e frustrazione sono le parole chiave di Can’t Stop Thinking About You e Without You (con un cameo di Danielle Haim alla batteria): entrambe scorrono via piacevolmente, con un retrogusto decisamente McCartiano. In Just A Dream, Tobias si inventa padre, immaginando un ipotetico dialogo con il figlio appena nato: “I can’t explain the world to you […] There’s a thing called hate, and there’s a thing called love too.[..] My baby she looked at me, and she smiled”; evidentissimo è il debito musicale con il Randy Newman di Sail Away. Tell The Truth, con il suo arpeggio di chitarra e The Wait, un omaggio a Nick Drake, sono forse le tracce che si discostano di più dal resto dell’album.

Complessivamente, pur non potendo parlare di vera e propria epifania, possiamo annoverare Goon tra i migliori esordi dell’anno. Le tonnellate di hype  sono giustificate da un talento cristallino e da un indubbio gusto per la melodia, da sempre esplicitato e rivendicato dal ventinovenne di Vancouver. Probabilmente una delle note dolenti è forse la mancanza di originalità del progetto, nonchè la ripetitività nella narrazione e del mood generale delle canzoni. Spesso, l’artista canadese si limita a citare i grandi crooner del passato senza aggiungere nulla di suo, cosa che invece è riuscita a Father John Misty con il suo I Love You, Honeybear, per fare un raffronto con un lavoro fresco di uscita.
Non senza un’inspiegabile stranezza, l’arte del cantautorato resiste, mantenendo quasi inalterato il suo anacronistico fascino, in attesa di capire quale sarà la prossima mossa di Tobias Jesso Jr.

Tracce consigliate: How Could You Babe, Just A Dream