Ai tempi di Angles Carlo Pastore aveva difeso questi “nuovi” (leggasi: brutti) Strokes dicendo puttanate come “Loro sono di New York e a New York adesso vanno un sacco gli anni Ottanta”. Che luminare. Con questo quinto album proseguono sullo stesso percorso: una fusione malriuscita di una riesumazione malriuscita degli anni Ottanta e di una riesumazione malriuscita degli anni Zero (ovvero Is This It).

È definitivo: ormai gli Strokes sono indifendibili, sono una band che non è riuscita a sopravvivere ai loro tempi, praticamente come gli Oasis, ma meno bravi. Sì perché almeno gli Oasis quei due o tre singoloni, per quanto fastidiosi, te li continuavano a rifilare senza problemi di album in album, mentre gli Strokes affannano nella loro stessa merda cercando di tirare fuori qualche melodia risicata. E quando ci riescono è sempre un lavoro a metà: se la strofa sembra carina il ritornello è una merda, se il ritornello è accettabile il resto della canzone è inascoltabile. Prendiamo ad esempio canzoni come l’iniziale Tap Out: dopo un intro che LOL, i primi passaggi, la strofa e il bridge sono un escalation di accettabilità, poi arriva il ritornello e ci si rende conto che la canzone è una merda. Oppure One Way Trigger, già uscita come anteprima dell’album facendo rabbrividire chiunque col nuovo falsetto di Casablancas, che fonde un ritornello fondamentalmente catchy con un arrangiamento osceno (tastierine giocattolo) e un cantato che vabbé. Sulla stessa strada di “buoni propositi persi nel letame” le varie Slow Animals, Happy Ending e Partners In Crime (in quest’ultima i buoni propositi sono persi invece nelle molle).

Il risultato finale è un disco che risulta quasi impossibile da finire, complice anche una tracklist stillata col culo: si parte con la già nominata Tap Out e il suo intro di merda, si prosegue con All The Time che parte figa ma si perde nello schifo rimanendo comunque uno dei brani più ascoltabili del disco, poi c’è la temuta One Way Trigger e già si stanno perdendo tutte le speranze e infine Welcome To Japan, in assoluto la canzone più brutta di sempre di tutti gli Strokes e progetti paralleli. Così brutta che mi sentirei in imbarazzo a doverne parlare, si dovrebbero tenere conferenze per discuterla secondo per secondo. A questo punto una persona normale avrebbe già messo su il disco dei Daughter, ma ci sono delle persone non normali: i fan degli Strokes e i recensori che prima di recensire aspettano almeno di finire il disco.

Incredibilmente le sorprese sono proprio nel cuore dell’album, ben protette da cumuli di merda. 50/50 è sicuramente il pezzo più figo del disco e non avrebbe sfigurato nella metà buona di First Impressions Of Earth. Era difficile fare un disco tutto così? Evidentemente sì. Evidentemente gli Strokes volevano pure trasmettere qualcosa in più con questo album. Non ci sono riusciti, chiaro, ma anche la traccia seguente 80’s Comedown Machine è una sorpresa, questa volta per tutt’altri motivi: la partenza di drum machine fa infatti urlare “PEZZO DUBSTEP DEGLI STROKES”. Ovviamente no, ma il pezzo non è male, probabilmente sarebbe stato bello se la voce fosse stata di una donna e se ci fosse stato un synth dignitoso al posto di quella roba lì che non si capisce se è una tastiera orrenda o una chitarra orrenda in hammer on pull off costante. E ci risiamo: gli arrangiamenti e la voce di Casablancas affossano un probabile buon pezzo. A proposito di synth, dopo l’anonima Slow Animals, troviamo Chances, assolutamente il brano più interessante del disco. Questa volta sull’arrangiamento ci siamo quasi, ma il falsetto alla Bono Vox di metà anni Novanta è nuovamente un ostacolo alla realizzazione di una canzone veramente bella. E sì che qua ce l’avevano quasi fatta sul serio. Compratevi una cantante nuova e fate un disco così la prossima volta.

Il cuore dell’album, la parte ok del disco, finisce qua. Il resto è tutta merda in cui continua a svilupparsi questo nuovo Strokes sound, che tanto ha influenzato quest’album, quello precedente e il featuring con Ke$ha, fino alla canzone finale: Call It Fate Call It Karma. Solo la canzone più ridicola della discografia era la più adatta a concludere l’album più ridicolo della discografia. Probabilmente ci stanno prendendo per il culo alla grande, probabilmente se la stanno ridendo, ma al momento della verità, quello del riscatto post-Angles, hanno sfoderato un disco ancora peggiore, diventando definitivamente una band ridicola ad uso e consumo di fanboy ridicoli e scemi, tipo quelli dei Muse.

Tracce consigliate: 50/50 (se volete sentire un pezzo bello degli Strokes che continuano a fare gli Strokes) oppure Chances (se volete sentire un pezzo bello degli Strokes che cercano di reinventarsi).